La confraternita senese di San Sebastiano, che si prodigava nell’assistenza ai malati colpiti dalle ricorrenti epidemie che flagellarono l’Europa nel Quattro-Cinquecento, commissionò al Sodoma, alias il pittore Giovanni Antonio Bazzi, questo stendardo raffigurante il pretoriano romano convertito al cristianesimo e condannato al martirio al tempo di Diocleziano. Il dipinto (in realtà si tratta del recto di una Madonna con Bambino e Santi), datato 1525, è un olio su tela, cm. 206×154, conservato agli Uffizi di Firenze.
Nella Sicilia etnea, ad Acireale come a Mistretta, dove il culto del santo è molto sentito, per la festa patronale del 20 gennaio (che si replica ad agosto, come a Palazzolo o a Cerami) una straripante, pirotecnica processione coinvolge l’intera popolazione; e commemora esattamente questo aspetto devozionale legato alla pestilenza che falcidiò l’isola nel XVII secolo. Per gli stessi motivi Sebastiano è venerato anche nel Salento; e forse non tutti sanno che è il terzo patrono di Roma, dopo Pietro e Paolo. La data del 20 gennaio, giorno del suo supplizio, è di antichissima tradizione; trova infatti riscontro in un martirologio del IV secolo, la Depositio Martyrum del 354 d.C. che si deve al calligrafo pontificio Filocalo. La chiesa d’Oriente lo commemora il 18 dicembre.
L’appartenenza di Sebastiano alla guardia pretoria ha fatto sì che questo martire del III secolo fosse adottato come patrono di varie polizie municipali italiane. Stando ad un passo di Sant’Ambrogio di commento al Salmo CXVIII lo si vorrebbe oriundo di Milano, ma in realtà era occitano, originario di Narbona. Dalla città padana era poi approdato nell’Urbe.
Accade però che Sebastiano, il santo invocato a protezione dei contagiati e dei poliziotti, nel secolo scorso sia assurto ad icona omosessuale in funzione di una lettura in chiave erotica che si è voluto dare agli ambigui risvolti nella relazione fra il bellissimo giovane e il suo carnefice, incattivito per il diniego ricevuto. E chi meglio del Sodoma, il cui appellativo affibbiatogli lascia sospettare costumi non propriamente conformisti, poteva prestarsi a ritrarre le morbide forme del soldato romano legato ad un tronco d’albero e trafitto dalle frecce scoccate dagli esecutori della condanna.
A raccogliere notizie sulla sua vita e del suo supplizio furono Arnobio il Giovane, monaco del V sec. d.C. (al quale sono attribuiti gli Acta Sancti Sebastiani Martyris altrimenti noti come dello Pseudo Ambrogio) e successivamente, nel XIII secolo, Jacopo da Varagine con la sua Legenda Aurea. Si ricostruisce che l’esecuzione avvenne al Palatino, presso il Pentapylon, dove fu poi eretta la piccola chiesa di San Sebastiano alla Polveriera. Il corpo martoriato, raccolto da S. Irene e da altre pie donne, fu portato ad catacumbas sull’Appia Antica, dove oggi sorge, sul sepolcro in cui furono deposte le sue spoglie, il santuario di San Sebastiano Fuori le Mura.
Al Palatino, nell’affresco del X secolo che decora il catino absidale, vediamo al centro il Salvatore fra i santi Sebastiano e Zotico. Qui Sebastiano, a sinistra del Nazareno, a differenza di quella che sarà l’iconografia dominante a venire, è rappresentato con severa compostezza – come ritroveremo, sempre a Roma, anche nel mosaico di S. Pietro in Vincoli, risalente alla fine del VII secolo – con eleganti abiti alla moda di Bisanzio, adulto e con tanto di barba imbiancata. Solo in seguito gli artisti lo rappresenteranno giovane imberbe, sensuale e impudicamente svestito.
L’iconografia, oltre al tronco d’albero, in variante ce lo può mostrare legato ad un fusto di colonna; circondato da arcieri e con gli strali che ne lacerano le bianche carni: una tradizione figurativa che va da Mantegna a Piero, dalle torsioni dinamiche di Tintoretto alle accensioni coloristiche del Greco, dai Carracci al Reni, passando per il Pollaiolo, Botticelli o Donatello. Nella prolifica stagione del nostro Rinascimento (ed altrettanto sarà col Manierismo) non si contano le tele evocatrici del martirio del santo, ove si indugia sulla sua nudità, spiando maliziosamente – come fanno il Perugino o Antonello – sotto il succinto perizoma steso a velarne le pudenda. Per non parlare dell’esplicito Sebastiano di Orvieto, per lo scalpello di Francesco Mosca, detto il Moschino, e del suo sodale Ippolito Scalza.
Con quel biancore opalino della pelle, rigato dal cremisi del sangue che cola dalle ferite, per gli artisti sulle tracce della classicità, in quei tempi di pruriginoso moralismo savonaroliano, diveniva l’irripetibile occasione per magnificare le armoniche proporzioni del corpo maschile nella sua nudità, quasi si trattasse di un novello Apollo o una divinità pagana (impensabile da esporre addirittura in una chiesa).
Francesco Mosca, detto il Moschino e Ippolito Scalza, duomo di Orvieto: statua del santo protettore della città (1554-57). A fine Ottocento le statue cinque-seicentesche presenti nel tempio furono rimosse per restituire l’immagine medievale dell’interno; e collocate nel museo dell’Opera del Duomo. Soltanto pochi anni fa la Soprintendenza le ha riposizionate nella sede originaria, esponendo la molle nudità del Sebastiano manierista all’inevitabile malizia di qualche fedele irriverente
Ma è con il “Divino Gabriele”, nel primo Novecento, che il martire cristiano si connota di caratteristiche efebiche che paiono avvalorare la leggenda di un Diocleziano invaghito di Sebastiano e di una sua stizzita condanna, non tanto per l’appartenenza religiosa, quanto per l’essersi sottratto alle attenzioni dell’imperatore. Quando D’Annunzio scrive, in lingua francese, il libretto per il St. Sébastien musicato da Debussy, per la messa in scena pensa addirittura ad una interprete femminile. Fattezze muliebri che ritroviamo nei bozzetti dei costumi, disegnati da Léon Bakst nel 1911 per la protagonista, la ballerina russa Ida Rubinstein.
D’Annunzio, languido esteta e sperimentatore di ogni gradazione di piacere, rimane affascinato dal simbolismo adombrato dalla figura di San Sebastiano; nel Vittoriale, il suo buen retiro sul lago di Garda, nella cosiddetta Stanza del Lebbroso, accanto al letto del Vate, troneggia una statua lignea a grandezza naturale del virtuosissimo santo. Si tratta di un’opera di bottega marchigiana di primo Cinquecento (riconducibile a Domenico Indovini), acquistata nel 1934. Memore di questa simpatia dannunziana per il personaggio (in cui poteva veder riflessa una inconfessata natura sado-masochista), nel 2011 lo scultore padovano Ettore Greco (classe 1969) ha voluto fare dono alla Fondazione di Gardone Riviera di un suo bronzo alto due metri, raffigurante appunto San Sebastiano. Correva il centenario del Martyre de Saint Sébastien e la statua di Greco è stata collocata in esterni, alla base del Mausoleo dell’Immaginifico.
Negli anni Venti Gabriele D’Annunzio incontra un bellissimo ragazzo, all’epoca diciassettenne, destinato, di lì a poco, a conquistare il pubblico della capitale francese con i suoi spettacoli di danza. Si tratta di Alberto Spadolini, reso celebre dal suo corpo statuario, capace di affascinare donne ed uomini. Quando Spadò (come sarà ribattezzato a Parigi) si trova al cospetto del Vate nei giardini del Vittoriale, gli fu chiesto di spogliarsi completamente nudo, in modo che potesse palesarsi nella compiutezza apollinea delle sue forme e che D’Annunzio – nella languente sensualità dell’età che declina – potesse goderne esteticamente. Era il perfetto Saint Sébastien nato dalla sua penna. I due si rividero a Gardone nel 1930.
Fra i simbolisti che ruotavano attorno al circolo rosacrociano del Sâr Josephin Péladan, e tra i primi a scorgere nelle frecce che “penetrano” il corpo di San Sebastiano le allusioni ad una sottile estasi omofila, va annoverato l’illustratore olandese Léonard Sarluis, invitato dal santone francese al Salon de la Rose+Croix nel 1896. Già il Moreau – anch’egli sodale del Péladan – ne aveva dato una sua versione che oggi definiremmo “transgender”-
Di quelle stesse atmosfere proprie del simbolismo di fine Ottocento risente anche il San Sebastiano di Eliseu Visconti (1866-1944), pittore italiano emigrato in Brasile.
Il pittore messicano Àngel Zàrraga (1886-1946), nel primo Novecento fece il viaggio di formazione in Europa, visitando Spagna, Francia e Italia. Da noi, prima di stabilirsi a Parigi, ebbe l’occasione di esporre a Firenze e Venezia, alla Biennale del 1909. Rimase a lungo nel Vecchio Continente sino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, quando decise fare ritorno in patria. Del 1912 è questo suo intimista Ex voto per San Sebastiano, ancora permeato di angelicato decadentismo e floreali eleganze. Questo grande olio su tela (cm. 185×135) è conservato al Museo Nazionale d’Arte di Città del Messico.
Che San Sebastiano possa essere divenuto in breve tempo, e soprattutto nel secolo scorso, icona dell’amore greco è certificato dall’esplicita ammissione dello scrittore giapponese Yukio Mishima, notoriamente omosessuale, il quale nel suo romanzo autobiografico, notissimo anche in Occidente, Confessioni di una maschera, del 1948, rivela che la sua prima masturbazione adolescenziale fu consumata proprio guardando – dalle pagine di un libro illustrato di arte italiana – il Martirio di S. Sebastiano di Guido Reni, quello conservato al Palazzo Rosso di Genova. Questa tela lo aveva talmente segnato che nel 1963 volle farsi ritrarre dal fotografo Eikoh Hosoe nella stessa identica posa. L’aggancio con D’Annunzio? La sua ammirazione per il Pescarese e nel 1966 l’avere tradotto per i lettori nipponici proprio Le martyre de saint Sébastien che gli rievocava i passati turbamenti solitari.
Al Sebastiano di Reni va ricondotta anche la foto acquarellata realizzata nel 1970 dall’esuberante Luigi Ontani. Di grande formato (cm. 70×100) appartiene alla collezione Sargentini (v. in alto).
Il cinema ha contribuito non poco a consolidare questa fama a senso unico del santo. Tennesse Williams nel suo dramma Improvvisamente l’estate scorsa chiama intenzionalmente Sebastian il protagonista maschile, l’inquieto Sebastian Venable, pederasta, che non viene mai inquadrato, se non di spalle e di bianco vestito, attorno al quale tutta la vicenda ruota, di cui tutti parlano ossessivamente e da cui sono misteriosamente soggiogati, sino al tragico epilogo del suo sacrificio rituale.
Fotogramma dal Dottor Faustus, film del 1967 dal dramma di Marlowe, interpretato da Richard Burton. Nel tenebroso studio dell’alchimista pronto al patto con Mefistofele, lo scenografo DeCuir ha immaginato una statua del Sebastiano trafitto
Non bisogna dimenticare che anche Oscar Wilde, quando uscì di prigione – dove lo aveva portato la propria omosessualità nella ipocrita e bigotta Inghilterra vittoriana di fine Ottocento – scelse come pseudonimo Sebastian Melmoth, sicuramente come allusivo richiamo alla leggenda del santo, di cui gli era nota la trama non ufficiale diffusa negli ambienti della contro-cultura del tempo (coniugato con l’uomo “errante” dell’omonimo romanzo di un suo prozio).
Ma è soprattutto il britannico Derek Jarman, con il film Sebastiane, sceneggiato in latino e sottotitolato, sua opera prima del 1976, a riproporre la versione apocrifa, dichiaratamente omosessuale, della storia. Girata in esterni in Sardegna a Cala Domestica, la pellicola suscitò alcune resistenze e perplessità non tanto per le scene di nudo e gli inequivocabili, trasgressivi abbracci maschili, quanto per lo stucchevole taglio estetizzante. Il Sebastiano di Jarman, interpretato dall’italiano Leonardo Treviglio, accusato di avere tramato a Roma contro Diocleziano, viene inviato al confino, ambientato nel riarso paesaggio mediterraneo dell’Iglesiente, con tanto di torre sabauda sullo sfondo. Avere rifiutato gli approcci del centurione a capo della guarnigione, gli costa la condanna a morte, legato ad un palo, bersaglio dei dardi scoccati dai soldati romani, nel rispetto dell’accreditata tradizione iconografica.
Anche in pittura, nel secolo scorso, non sono pochi gli artisti della modernità figurativa che hanno voluto riproporre – magari con l’espediente cripto-omosessuale della rappresentazione agiografica da Ritorno all’Ordine, sulle orme dei rinascimentali – quell’esibizione di nudo che l’Italia moralista e piccolo-borghese del Ventennio fascista mal tollerava. Di quegli anni sono i numerosi San Sebastiano di pittori come Janni (1892-1958), De Pisis (1896-1956), Colacicchi (1900-92), Cagli (1910-76). Per il politicizzato Guttuso (1911-87) gli accenti espressionisti vanno coniugati con l’impegno sociale: il suo martire diventa un bracciante o un minatore siciliano e rievoca lotte e scioperi culminati nella repressione e nel sangue.
Diverso il segno grafico della xilografia Déco realizzata nel 1924 dal faentino Francesco Nonni (1885-1975), dove l’eleganza del tratto depura la scena da ogni pathos e la restituisce come una raffinata esercitazione ornamentale di linee e arabeschi, dosate campiture di bianchi e di neri, grovigli di asessuati corpi alla Bradley.
Anche fra gli schizzi del poeta spagnolo Federico Garcia Lorca è possibile trovare questa sorta di omaggio al santo della diversità, databile 1927
Una artista che ci ha abituato alla provocazione come la francese Niki de Saint Phalle (1930-2002), non poteva mancare all’appuntamento con un ghiotto soggetto iconico come il martirio del santo narbonese. Naturalmente lo fa a modo suo, utilizzando le corde interpretative che le sono congeniali, fra Dada, Ready Made e Pop Art – siamo nel 1961 nella New York delle nuove avanguardie – stravolgendone lo spunto narrativo. La materia corporale si dissolve: resta solo la camicia, crivellata da proiettili e – a ricordare che lì dentro c’era un uomo ucciso – gli strali che inchiodano la stoffa al supporto telato. Al posto della testa un bersaglio per il gioco delle freccette. Come in una performance Niki scocca i suoi dardi contro quello che è l’oggetto inarrivabile dei suoi desideri e che così, in effigie, come in un passaggio di stato da solido ad aeriforme, intende cancellare ritualmente dalla propria vista.
Nel 1967, in piena stagione Pop, l’art director George Lois ed il fotografo Carl Fisher, realizzano una copertina per la rivista “Esquire”, attingendo all’iconografia del martirio di San Sebastiano, questa volta interpretato da un pugile popolarissimo come Cassius Clay, alias Muhammad Ali. E’ una versione stavolta di segno politico e sociologico che nulla ha a che fare con la vulgata gay: sono gli anni della contestazione, delle marce di protesta per la guerra nel Vietnam, delle battaglie di emancipazione degli Afroamericani Oltreoceano.
Anche negli anni Settanta, un grande artista greco come Yannis Tsarouchis (1910-89), che comunque non faceva mistero del suo orientamento, si serve della leggenda di San Sebastiano ma la reinterpreta attualizzandola alla Grecia dei Colonnelli, mettendo ai lati della tela, due militari in divisa contemporanea, però armati di arco; al centro, trafitto, un martire in boxer, testimone di quegli anni bui di regime totalitario.
Ancora più drammatica la rivisitazione che negli anni Ottanta fa Andrea Pazienza (1956-88) quando si ritrae nella posa di Sebastiano, ma stavolta infilzato da siringhe che iniettano eroina e morte. L’artista deceduto per overdose nel 1988, fa del martirio del santo l’immolazione sacrificale cui in quegli anni terribili della società italiana pareva destinato il mondo emarginato della tossicodipendenza.
I fotografi francesi Pierre Commoy e Gilles Blanchard nel loro tritacarne consumistico mescolano cultura pop, tematiche gay, sacre rappresentazioni. Nell’irriverente repertorio di Pierre et Gilles non poteva mancare il mite Sebastiano, ormai inequivocabilmente “santino” della comunità LGBT, qui trasformato in una sorta di patinato ragazzo di vita, senza però alcuna vibrazione sottocutanea, asettico caravaggesco privo di ombre e chiaroscuri, laccata messinscena promozionale di un prodotto da “supermercato” del sesso. Niente di più distante dal turbamento che riusciva a suscitare la devastante via crucis del martoriato Pazienza.
Mimmo Rotella (1918-2006) uno degli artisti più quotati del Pop romano, negli anni Ottanta si ispira al graffitismo urbano e sperimenta i décollages, manifesti lacerati e stratificati su lamiera, con scritte e scarabocchi come è possibile vedere sui muri di ogni nostra città. In questo suo lavoro del 1988 ci imbattiamo, come fosse un cartellone pubblicitario, nel martirio da street art del povero Sebastiano.
Tunc posuerunt eum milites in medio campo, et hinc inde eum ita sagittis repleverunt, ut quasi hericius ita esset irsutus ictibus sagittarum.
Questo il testo latino degli Acta Sancti Sebastiani (cap. XXIII, par. 85), che tradotto suona: “Allora i soldati lo misero in mezzo al campo e qui lo riempirono di così tante frecce da farlo sembrare quasi un istrice per quanto era ricoperto dai lanci di strali”.
A questa immagine che fa rabbrividire si è indubbiamente ispirato Michael Rolando Richards (1963-2001) con la scultura ideata per onorare il reparto di piloti afro-americani, i Tuskegee Airmen, ed il loro misconosciuto contributo nella Seconda Guerra Mondiale. L’artista di origine giamaicana, che morirà trentottenne durante l’attacco alle Torri Gemelle dove aveva il suo studio, rappresenta San Sebastiano con le proprie sembianze (a grandezza naturale in resina e fibra), vestito da aviatore; trafitto da decine di piccoli aerei da combattimento, conficcati nella carne come saette. Tar Baby è il pupazzo di catrame e trementina, nome usato come spregiativo per i neri d’America. In questo senso Richards intende far sua la sofferenza della negletta popolazione di colore in quel Paese.
Se la droga e l’AIDS sono piaghe diffusesi, nei decenni scorsi, a macchia d’olio nel nostro Paese, San Sebastiano che mette al riparo dalle malattie è il patrono giusto a cui rivolgersi. Lo stesso che oggi ci dovrebbe vegliare in questi mesi nefasti di una pandemia virale che sta dilagando nel mondo.
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