LA PORTA MAGICA DI VILLA PALOMBARA

HORTI MAGICI INGRESSUM HESPERIUS CUSTODIT DRACO ET SINE

ALCIDE COLCHICAS DELICIAS NON GUSTASSET JASON  [1]

La Porta Alchemica o Ermetica di Villa Palombara, altrimenti conosciuta come Porta Magica di Piazza Vittorio Emanuele a Roma è un bizzarro monumento che,  oltre ad essere testimonianza notevole sotto il profilo culturale, costituisce un tema importante sotto il profilo iniziatico.

Nel redigere le presenti considerazioni mi sono avvalso degli scritti di Alberto Canfarini, di cui è nota la dedizione alla tradizione esoterica.  Del 1986 è l’articolo a sua firma pubblicato sul numero 1 della rivista  “Hiram” di quell’anno, successivamente  apparso nella versione aggiornata ed ampliata sul numero di febbraio dell’anno 2000 della rivista specialistica “Vidya”  e, l’anno successivo, su “Arkete” pubblicazione periodica di studi filosofici. Da segnalare naturalmente anche più recenti pubblicazioni di Cesare Lucarini (La porta magica di Roma. Varco del nuovo sapere, Edizioni Nuova Cultura, Roma 201) e di Mino Gabriele (La porta magica di Roma simbolo dell’alchimia occidentale, Olschki, Firenze 2015). Si veda infine Maurizio Calvesi, Arte e alchimia, Art Dossier, Giunti, Firenze 1986, pp. 58-61.

La Porta Ermetica è l’unico monumento dove il Marchese di Palombara e il suo ispiratore, “il Pellegrino” [2], hanno espresso l’Opus Magnum,  l’Iter Alchemico dal piombo, all’argento e infine all’oro.

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Simbologia alchemica della Porta di Villa Palombara (particolari). Sull’alzata della soglia è inciso questo insegnamento epigrafico EST OPUS OCCULTUM VERI SOPHI APERIRE TERRAM UT GERMINET SALUTEM PRO POPULO. la cui traduzione suona: lavoro segreto del vero sapiente è dissodare la terra affinché da essa fiorisca il bene per l’umanità. Sulla pedata della soglia un motto palindromo: SI SEDES NON IS che nel verso contrario si legge SI NON SEDES IS (se ti fermi non procedi, solo se non ti fermi puoi procedere) e allude all’incessante lavoro che l’iniziato – cioè colui che varca il passaggio – deve compiere su se stesso.

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Nel tondo che sovrasta l’architrave, attorno al sigillo di Salomone, la scritta recita: TRIA SUNT MIRABILIA DEUS ET HOMO MATER ET VIRGO TRINUS ET UNUS (tre sono le cose strabilianti: dio e uomo, madre e vergine, trino ed uno). All’interno, nel punto di intersezione tra i due opposti triangoli (rivolti dall’alto verso il basso e viceversa), un’altra scritta ad andamento circolare: CENTRUM IN TRIGONO CENTRI. Vale a dire: il nucleo centrale si trova là dove la materia incontra lo spirito per divenire momento di inerzia di forze contrarie fra loro (la verticalità e l’orizzontalità data dai bracci della croce che svetta da questa sorta di sacro chakra ante litteram).

L’Umanesimo, o meglio la cultura umanistica che caratterizza la stagione rinascimentale in Europa fra XV e XVII secolo, rappresenta il tessuto connettivo, il collante che unifica, rende concreta e realmente condivisa quella che noi siamo soliti chiamare una comune cultura europea. Quando noi rivendichiamo per l’Europa un substrato identitario culturale, a dispetto delle diversità linguistiche e particolaristiche, a dispetto di questa Europa di tecnocrati e di macroeconomisti, proprio questo intendiamo.

Fra Quattrocento e Seicento, per gli intellettuali di Italia, Spagna, Francia, Germania, Paesi Fiamminghi, Isole Britanniche, grazie a quel fenomenale veicolo di diffusione che fu la stampa a caratteri mobili, servendosi del Latino non come di una lingua morta ma come strumento vivo di divulgazione “alta”, fu facilitata e resa possibile una rete di comunicazione senza precedenti.

Fatti i dovuti distinguo, potremmo fare un paragone con le opportunità offerte oggi dalla informatizzazione, dalla piattaforma comune della lingua inglese, dal web e da internet.

Di sicuro è venuto a mancare il fascino sinestetico – tattile e olfattivo, oltreché visivo – di quelle meravigliose pagine cartacee, di quelle raffinate incisioni che illustrano i libri di alchimia e di esoterismo stampati a Venezia, ad Oppenheim o nelle Fiandre e che circolavano nelle Wunderkammer  del tempo,  negli studioli e nei gabinetti alchemici di mezza Europa, dal Portogallo ai castelli d’Ungheria.

Fu quella una stagione irripetibile di preziosi testi specialistici, a vocazione alchemico-filosofale, magistralmente illustrati da incisori di valore che hanno scandito le tappe della nostra Weltanschauung:  basti pensare all’Aurora Consurgens (manoscritto miniato del XV secolo), all’Aurelia Occulta Philosophorum di Basilio Valentino, allo Splendor Solis di Salomon Trismosin (Germania, 1535 c.), al Viridarium Chimicum di Stolcenberg (1624), al Mutus Liber (Francia, seconda metà del Seicento).

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M. Maier, Atalanta Fugiens, tav. XXVII, Oppenheim 1617

Proprio con il pensiero rivolto alla Porta Magica di Villa Palombara, torna alla mente una splendida stampa seicentesca tratta dall’Atalanta Fugiens di Michael Maier, la tavola XXVII in cui è raffigurato il viandante giunto alla porta del giardino filosofale e dinanzi ad essa è costretto ad arrestarsi. Se osserviamo meglio la rappresentazione, ci accorgiamo che le gambe sembrano affondare nel terreno perché mancano i piedi. L’epigrafe latina che campeggia sull’illustrazione infatti ammonisce: “chi cerca di entrare nel roseto dei filosofi ed è privo di chiave è simile all’uomo che vuole camminare ma è privo di piedi”.

Direi che questa immagine descrive compiutamente l’introduzione allegorica alla nostra Porta. In questo clima magico-iniziatico che  pervade sottotraccia il Vecchio Continente, si inserisce la figura del Marchese di Palombara in una Roma di metà Seicento che quanto ad occultismo ed esoterismo non è inferiore alla sua fama di città della Tradizione. Il Genius Loci del Lazio affonda le radici nel Mito: qui, tra queste cupe selve verdeggianti, aveva trovato rifugio Saturno; qui Ercole aveva abbattuto Caco; qui Marte si era congiunto con una mortale. Negli anfratti della campagna romana il re-sacerdote Numa interrogava la Ninfa.

E ancora qui, sul colle Vaticano, gli aruspici etruschi traevano i loro vaticini interrogando il volo degli uccelli.

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I moniti del “Pellegrino” al Marchese di Palombara: QUANDO IN TUA DOMO NIGRI CORVI PARTURIENT ALBAS COLUMBAS TUNC VOCABERIS SAPIENS (simbolo di Saturno, il piombo). QUI SCIT COMBURERE AQUA ET LAVARE IGNE FACIT DE TERRA COELUM ET DE COELO TERRAM  PRETIOSAM (simbolo di Marte, il ferro). DIAMETER SPHERAE THAU CIRCULI CRUX ORBIS NON ORBIS PROSUNT (simbolo di Giove, lo stagno). Sotto il simbolo del sole (l’oro) l’ultimo insegnamento alchemico: FILIUS NOSTER MORTUUS VIVIT REX AB IGNE REDIT ET CONIUGIO GAUDET OCCULTO. Il percorso si è compiuto, il vile metallo si è trasformato in prezioso elemento. Dalla nigredo, passando per gli stadi intermedi di albedo e citrinitas, si perviene alla rubedo finale, la “cauda pavonis” si apre a ventaglio in tutta la sua fantasmagoria fiammeggiante. L’uomo che lavora al proprio perfezionamento raggiunge la percezione del Sé e del divino, la scintilla sacra che illumina la sua interiorità.

L’urbe nel corso dei secoli è stata caricata di flussi energetici: si pensi alla pietra meteoritica della Magna Mater Cibele che qui era stata trasportata  dalla Frigia ed era venerata sul Palatino; si pensi al Palladio che da Ilio era stato portato in salvo dai profughi troiani ed era divenuto simbolo e talismano della potenza di Roma stessa; si pensi poi alla figura del Pontefice, prima quello latino, poi quello cristiano, il costruttore di ponti  tra le due sponde del fiume sacro, la cui funzione simbolica era quella di ponte fra la sfera terrena e quella ultraterrena, vettore dalla contingenza alla trascendenza.

Purtroppo ai nostri giorni la zona di Piazza Vittorio Emanuele II, che i romani continuano a chiamare familiarmente e semplicemente Piazza Vittorio, è un contesto urbanistico del tutto stravolto rispetto a quello originario del XVII secolo. Questo quadrante di Roma, nel cuneo fra la basilica di Santa Maria Maggiore e Santa Croce in Gerusalemme, era interamente occupato da vigne, orti e ville, era cioè quasi del tutto spopolato. “Exquilinus” proprio questo sta a significare: in contrapposizione  ad “inquilinus”, è la porzione oltre il giro di Mura Serviane.

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In alto: a sin. pianta del Nolli (1748); a dx. PR del 1882 (stralci)

La pianta di Giovan Battista  Nolli del 1748, al riguardo,  è un valido supporto topografico. L’espansione post-unitaria piemontese-umbertina ha invece urbanizzato intensivamente proprio questo settore cittadino, destinandolo alla borghesia impiegatizia e medio borghese della nuova Capitale del Regno, come testimonia la mappa del Piano Regolatore del 1882.

Inoltre, a questo si aggiunga il mutato tessuto sociale e ambientale odierno che ha alterato ulteriormente l’assetto e l’aspetto di questi luoghi.

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Villa Palombara Ad Trophaea, dipinta di Annibale Angelini (1859) a Palazzo Massimo alle Colonne. Sul lato destro si intravede la porta magica incastonata nel muro di cinta. La costruzione in una foto di secondo Ottocento, prima delle demolizioni umbertine

La villa di Massimiliano di Palombara era un hortus conclusus, un ameno e isolato giardino ove il proprietario poteva aristocraticamente dedicarsi ai suoi studi, all’otium (inteso nella sua accezione latina), alle sue passioni segrete, ai suoi esperimenti, alle sue amicizie selezionate fra dotti e poeti, fra negromanti e filosofi. E magari tra questi poteva anche imbattersi in qualche indesiderato ciarlatano.

Molti secoli prima, a pochi passi dal luogo in cui il Palombara aveva la sua villa, cioè alle spalle dell’Arco di Druso (addossato alla chiesa medioevale dei SS. Vito e Modesto), Mecenate in epoca romana passeggiava per i suoi Horti. A Largo Leopardi è possibile visitare il sito archeologico noto come Auditorium ma che in realtà era un ninfeo nell’ambito della celebre villa dell’illustre amico di Augusto – protettore delle arti e delle lettere tanto da divenirne il prototipo per antonomasia – dove si riunivano i maggiorenti del tempo. Prima ancora, prima cioè che Mecenate bonificasse l’area, in questa zona – come racconta Orazio – “miserae plebi stabat commune sepulcrum” e questo angolo di Esquilino si presentava (è sempre Orazio a parlare, Lib. I, Sat. VIII, vv. 10, 16) come “un campo informe di bianche ossa”.

Oggi, si è detto, il contesto è ben differente, tanto dalla prima età imperiale, quanto dal Seicento del Palombara. Di quella villa barocca nulla più rimane, spazzata via dagli sventramenti e dalle costruzioni di fine Ottocento di Gaetano Koch. I picconatori del Governatorato di Roma decisero di salvare questo strano reperto residuale, probabilmente sedotti e intimoriti dagli oscuri e criptici geroglifici incisi su stipiti e architrave dell’arcano ingresso. Temporaneamente conservati nei depositi capitolini furono successivamente riassemblati nel giardino centrale della vastissima piazza di nuovo impianto. E quasi a completarne l’esotica ed esoterica composizione, si decise di accostare ai due lati della porta due statue greco-romane dell’egizio Bes, anch’esse provenienti dagli sterminati magazzini capitolini, sovraccarichi di ritrovamenti di quegli intensi anni di sterri e campagne archeologiche.

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In alto: uno scatto del noto fotografo americano Elliott Erwitt

Bes è la divinità che il religioso abitante del Nilo aveva eletto a guardiano dei passaggi, dei transiti, mostruoso ibrido di uomo e scimmia, la cui funzione era quella di terrorizzare l’eventuale profanatore.

Per certi versi potremmo assimilarlo al nostro Giano, in vista dell’etimo che lo imparenta alla Ianua, cioè proprio alla porta, alla soglia di comunicazione fra differenti piani spazio-temporali. Come l’Angelus Novus di medioevale tradizione riproposto da Paul Klee in un celebre quadro di arte contemporanea, egli ha lo testa rivolta all’indietro, verso il passato, la tradizione, la nostalgia; ma lo sguardo proiettato in avanti, verso il domani, verso la realizzazione a venire, verso la trasformazione del proprio Sé.

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Memoria offre al pellegrino le sue armi (codice miniato del XV sec.), British Library, Londra

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P. Klee, Angelus Novus, 1920, Israel Museum, Gerusalemme

Purtroppo l’incuria ed il degrado stanno svilendo questo che un tempo era un incantato angolo di città. Per salvaguardare il monumento superstite di Villa Palombara, così come i vicini e grandiosi resti dei Trofei di Mario, da incursioni e da manomissioni vandaliche,  l’amministrazione comunale lo ha dovuto perimetrare con una robusta recinzione di protezione.

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La porta magica in una incisione del 1806

Personalmente rammento ancora, prima che costruissero  la cancellata, quanto fosse piuttosto improvvido avventurarsi per quel vialetto laterale fra bottiglie rotte, siringhe abbandonate e sospetti figuri, per accostarvisi e cercare di ricomporre il rebus con cui il Marchese  di Palombara voleva sfidare il novello Edipo.

Oggi la Porta Magica se ne sta appartata e silenziosa, all’ombra dei tigli  fronzuti, in attesa del “Pellegrino” che abbia con sé la chiave per aprire quelle ante serrate, penetrare all’interno dell’enigma e svelarne la soluzione.

arch. Renato Santoro – Roma, 22 ottobre 2016

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W. Blake, incisione per The Grave di R. Blair (1805): la porta della morte

NOTE

[1]  “Del magico giardino custodisce l’ingresso il Drago delle Esperidi e senza Alcione, le delizie della Colchide non avrebbe assaporato Giasone”. E’ il testo lapidario inciso sull’architrave della Porta Magica di Piazza Vittorio

[2]  Il personaggio del “Pellegrino”, sfumato nei contorni della leggenda popolare, è il misterioso viandante “innominato” cui il Marchese aveva dato ospitalità nel suo gabinetto alchemico, il quale – dopo avere ottenuto oro dal piombo – sparì improvvisamente.  Avrebbe però lasciato una pagina scritta di suo pugno con tutti quegli arcani simboli e quelle oscure formule filosofiche che  Massimiliano Palombara marchese di Pietraforte (1614-1680) riprodusse sul portale d’ingresso al proprio giardino. Si hanno fondati motivi di ritenere che nel pellegrino si celasse l’alchimista milanese Francesco Giuseppe Borri, sodale del nobiluomo romano; entrambi erano frequentatori del salotto esoterico della Regina Cristina negli anni del suo esilio nella Capitale. Iscrizioni e geroglifici potrebbero in realtà essere stati desunti dalle pagine di un manoscritto alchemico, il cosiddetto manoscritto Voynich del XV secolo, passato di mano dal re boemo Rodolfo II a Cristina di Svezia e da questa all’erudito prelato Athanasius Kircher, ben noto negli ambienti occultisti di Roma

SEGUE: UN PORTALE MISTICO-ALCHEMICO NELLA PROVINCIA SABINA

Link:  https://archipendolo.wordpress.com/2016/11/03/un-portale-mistico-alchemico-nella-provincia-sabina/

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