Per la parola fascino, che abbiamo ereditato dal latino, l’etimologia ci rimanda al greco βασκαίνω il cui significato è quello di “guardare di traverso” (cioè storto), “affatturare”. Invidiare non vuol forse dire “fissare contro”? Quindi nell’ammaliatore c’è la facoltà dell’incantamento con lo sguardo magico, un po’ come le sirene che seducevano col loro canto irresistibile ma distruttivo.
Gli occhi possono stregare, piegare al proprio volere. Quando un gatto ti fissa te ne accorgi: memorabile la foto di Kim Novak e del suo felino Cagliostro (dal film Una strega in paradiso), due ipnotizzatori che sembrano ordinare “a me gli occhi” a chi gli capita sotto tiro.
Le navi che nell’antichità solcavano l’Egeo avevano, come decorazione apotropaica sulla prua, proprio due occhi col compito di allontanare i maleficî dettati da invidia o gelosia. Ancor oggi in Grecia ai neonati viene appuntata come amuleto una spilla, con tanto di pupilla e iride azzurra, cui è affidata l’incombenza di rispedire al mittente ogni eventuale (anche inconsapevole) sentimento malevolo. Si preferisce metterla sulle spalle perché il malocchio può colpire anche non appena ci si volta.
Del resto sin dall’antico Egitto l’occhio – tanto di Ra quanto di Horus – era un talismano con una fortissima valenza di tutela e protezione.
L’uocchie sicche so’ peggio d’e scuppettate
Un capolavoro letterario che affronta il tema di questa nefasta credenza popolare (nefasta perché spesso porta male a chi ne è coinvolto, sia in forma attiva che passiva) si deve alla penna del francese Théophile Gautier che ambienta proprio a Napoli, città scaramantica e superstiziosa per antonomasia, il romanzo breve uscito a puntate nel 1856, dall’eloquente titolo Jettatura (in italiano nell’originale). Narra le sfortunate vicende del conte Paolo d’Aspromonte che, approdato nella città del golfo, scopre di essere additato dalla gente del posto come lugubre e funesto menagramo. Ed è da tutti scansato. Queste dicerie lo indurranno ad una soluzione estrema che rende amaramente tragico il finale. Un disperato atto di accusa di chi si immola contro l’assurda meschinità dell’ignoranza.
Anche un personaggio della banda Disney, ha trovato cittandinanza ai piedi del Vesuvio. Si tratta di Amelia la strega che ammalia, in inglese Magica De Spell (cioè incantesimo, con quel “De” omaggio all’onomastica italiana), fattucchiera che nella grafica di Carl Barks del 1961 somma tutti gli stereotipi affibbiati ai nostri meridionali da un americano-tipo, compreso il corvo Gennarino e qualche reminiscenza – come confessò lo stesso disegnatore – della Loren nazionale.
Queste leggende sono però dure a morire e non è vero che siano un retaggio del passato, Non molti anni fa, proprio nell’ambito del mondo della musica leggera, che uno penserebbe più evoluto, non sono pochi i cantanti che hanno dovuto fare i conti con la diffusa nomea che portassero jella.
Una sorte che toccò ad un paio di interpreti femminili di casa nostra, devastate da queste maldicenze, al punto di volerla fare finita: una italo-egiziana, l’altra venuta a Roma dalla punta dello Stivale. Ma anche due cantautori, uno istriano l’altro concittadino dell’Alighieri, sono stati offuscati da queste calunnie perniciose.
Lo stesso fratello della cantante ha confessato che il suo ritratto nella casa di Parigi lo inquieta per quello sguardo obliquo e indagatore
Memorabile il commento pirandelliano alla patente di Rosario Chiarchiaro: “mi vesto a lutto perché sono morto, mi hanno assassinato spargendo la voce che sono uno jettatore”. Proprio per questo il surreale personaggio dell’Agrigentino si sente autorizzato a rivendicarne l’attestato ufficiale.
Del dotto filosofo Benedetto Croce è nota la frase “Non è vero ma ci credo” ed è anche risaputo, come raccontarono i suoi intimi, che la sua diffidenza non risparmiava nemmeno il celebre critico letterario Mario Praz del quale si diceva portasse sfortuna; al punto di non pronunciarne nemmeno il nome. Lo stesso era successo a Mazzini e per entrambi – lugubremente sempre vestiti di nero e senza nemmeno l’ombra di un sorriso – per menzionarli si diceva semplicemente “l’innominabile”.
Innominabile per Mussolini era anche Giulio Cesare Evola. Il filosofo esoterico degli anni Trenta, che non godeva certo fama di persona positiva. Il Duce, pur conoscendone la propensione per il fascismo, preferì tenersene alla larga.
La linfa vitale di Napoli, si è detto, si nutre delle proprie ancestrali radici mediterranee, ed è luogo deputato per tutto l’apparato connesso all’argomento superstizione. La dinastia dei Borbone ne era ossessionata e tutti, indistintamente, si armavano di corni contro la mala sorte. Mania questa dei partenopei diffusa anche nelle classi colte e più progredite, raccontata sia da Stendhal che da Dumas, i quali vissero a lungo nella città campana e ne adorarono tutti i risvolti. Gli autori d’Oltralpe fanno menzione di due dei più potenti iettatori napoletani: Don Cesare della Valle duca di Ventignano di cui racconta Alexandre Dumas padre nel Corricolo (1841); e il canonico Andrea De Jorio, temutissimo da Ferdinando I che per anni fece di tutto per evitarlo ma che, quando infine lo ricevette, il giorno dopo ebbe un mortale attacco apoplettico, come racconta il Beyle in Rome, Naples et Florence (1817).
Negli anni ’50 a Milano circolava la nomea di gufo malaugurante riservata allo scrittore e critico musicale Beniamino Dal Fabbro. Il giornalista Luigi Pestalozza, presente al fatto, raccontò di quella volta in cui al Biffi Dal Fabbro si imbatté nella coppia Meneghini Callas. Il marito della cantante greca (alla quale, per inciso, Dal Fabbro non risparmiava feroci stroncature) platealmente ricorse al noto gesto del toccamento. Fulminante la plateale e arguta replica: all’attempato imprenditore veronese (che il musicologo apostrofò come “signor Callas”) era sufficiente grattarsi il capo, dal momento che nel suo caso testa e testicoli erano la stessa cosa. Quel “Signor Callas, non si tocchi i Meneghini” la dice lunga sulla raffinata dialettica dell’intellettuale bellunese che nel ’58 alla Scala aveva osato urlare “Liberate il teatro da questo insopportabile flagello”.
Ritratto di Beniamino Dal Fabbro (1942) a firma di Domenico Cantatore
Nell’ambiente della lirica sulla verdiana Forza del destino aleggiano malevole leggende; persino la solare e positiva Renata Tebaldi ammise che quando prestava la sua “voce d’angelo” al personaggio di Leonora, ad ogni buon conto preferiva tenere con sé un bel corno rosso, donatole proprio a Napoli.
In tempi più vicini a noi non sfuggì alla perfida calunnia di essere portatrice di sventure l’elegantissima first lady americana Jacqueline Bouvier, vedova Kennedy e poi vedova Onassis. Christina, la figlia del magnate di Smirne, cominciò a mormorare che gli affari del padre cominciarono spaventosamente a declinare dopo il matrimonio con Jackie; unitamente a una serie di luttuosi eventi familiari.
Come non citare, per concludere, Eduardo De Filippo: che se ne uscì con un fulminante: “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”, frase che racchiude in sé tutte le contraddizioni di una grande cultura di confine fra futuro e passato, fra positivismo e irrazionalità. Ancor oggi per i vicoli dei quartieri spagnoli è risaputo che “gli occhi secchi (leggi: malocchio) sono peggio di una fucilata”.
Il francese “charme” – che noi possiamo tradurre con “fascino” – ha la sua radice etimologica nel latino “carmen” che indica la formula magica dell’incantesimo. Le armi della seduzione si servono di antichi rituali…