Dialogo immaginario tra un uomo stanco di vivere e la propria anima

Un testo egizio, assai particolare per il suo contenuto, risalente al Medio Regno e conservato nel Museo di Antichità Egizie di Berlino – dove era giunto alla metà del XIX secolo grazie agli acquisti di Giovanni d’Athanasi, avventuroso collezionista e mercante greco – è trascritto in palinsesto sul cosiddetto Papiro n. 3024, un rotolo di 3 metri e mezzo di estensione, lungo cui si snoda in caratteri ieratici, il dialogo immaginario tra un uomo e il suo Ba, cioé la propria anima.

Si tratta di un tema forse unico nel suo genere e insolito per la spiritualità di una civiltà permeata dal culto dei morti e dalla fede incrollabile nell’aldilà. La datazione è incerta, collocabile però al tempo della XII dinastia, intorno al 1900 a.C.

E’ un dialogo la cui impronta umorale  è stata talora etichettata – usando categorie proprie della contemporaneità – come nichilista o esistenzialista e sicuramente per questo ne riusciamo ad apprezzare una valenza filosofica vicina al nostro sentire moderno.

Lo si definisce dialogo perché la lamentazione è rivolta all’anima, ma di fatto è un lungo monologo imbevuto di pessimismo del vivere, tanto è vero che l’esegesi fattane dagli specialisti parla addirittura di un “aspirante suicida”.

Solo alla fine l’anima risponde lapidaria, invitando il meschino ad attaccarsi alla vita, a rinviare l’Occidente, vale a dire procrastinare la morte desiderata. Solo quando egli si sarà ricongiunto naturalmente alla terra potrà formare un tutt’uno con la propria anima.

Un argomento che potremmo definire tabù presso un popolo così sottomesso al divino come l’egizio, ove tutto è illuminato dalla luce vivificante e onnipresente di Ra, ove tutto è reso sopportabile dalla cura caritatevole di Iside.

Al contrario qui a prevalere è il senso di oppressione e di rinuncia di questo uomo senza nome che non riesce più a trovare stimoli vitali nella volgarità del suo tempo, nella cattiveria dei suoi simili, nella miseria della sua condizione umana, tanto da desiderare una via risolutiva solo nella morte.

Questa inquietudine, questo disfattismo esistenziale nato sulle rive del Nilo quattromila anni fa, nel cuore del probo che vede malvagi e malfattori appagati e senza punizione in questa vita, mentre i giusti a stento dovranno accontentarsi del riscatto ultraterreno, è un cruccio che da sempre assilla le nostre coscienze. E’ un leit-motiv che troverà consonanza in altri testi etici del Vicino Oriente, anche se di epoca successiva, come il Libro di Giobbe presso gli Ebrei e il Poema del re Subsimesri-Nergal in area mesopotamica.

Cosa di più vicino alla sensibilità di noi figli del Novecento, cresciuti con Kierkegaard, Leopardi, Heidegger, Camus o Bergman?

Una prima traduzione in italiano del papiro di Berlino si deve a Sergio Donadoni (La religione dell’antico Egitto, Laterza, Bari, 1959; Testi religiosi egizi, Utet, Torino, 1977) che sembra tracciata sulla falsariga tedesca di Adolf Erman: Gespräch eines Lebensmüden mit seiner Seele (Berlino 1896). E’ infatti Lebensmüden (alla lettera “stanco della vita” ) che ha indotto i traduttori italiani ad usare il termine “aspirante suicida”.

Poco prima del nostro Donadoni se ne era occupato Raymond O. Faulkner: The Man Who Was Tired of Life, in “Journal for Egyptian Archeology”, n. 42, 1956.

Edda Bresciani, formatasi alla scuola dell’emerito egittologo palermitano, ne ha curato una rigorosa versione italiana in Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Einaudi, Torino 1969, pp. 199-205.

La prima parte del dialogo è incompleta, perché il papiro egizio originale presenta delle lacune. Ma è comunque possibile ricucirne la trama.
Questo il riassunto che ne fa S.Donadoni:

...Il mondo sembra un cumulo di ingiustizia e di dolore, decaduto tanto da un mitico passato che non c’è più, e una nemica solitudine lo occupa, in cui tutti sono ostili l’un l’altro. E’ ripreso, con un tono assai più alto e pensoso, un comune motivo dell’epoca, e cioé quello della critica del mondo e della diffidenza verso i valori tradizionali, sia politici che sociali e religiosi. In questa amara solitudine, lo scrittore apre una sorta di dibattito processuale con la propria anima, per ottenere da lei il verdetto: se sia meglio continuare a vivere nel mondo ostile, oppure uccidersi per arrivare presso déi che siano migliori degli uomini, ai quali poter concedere quella fiducia che non si può più dare ai propri simili. A questa protesta contro il mondo, l’anima oppone un altro punto di vista, anch’esso tipico del tempo. Proprio perché nel mondo non c’è un ordinato disegno, anche dalla mitologia funeraria c’è da diffidare. La morte non è una ignota felicità ultraterrena, ma l’ orrore del distacco dalla propria casa, il pianto, il disfarsi dei corpi, invano protetti da inutili tombe, invano forniti di inutili offerte, che ben presto cessano. Questa inconoscibilità dell’aldilà mitico, questa diretta esperienza della miseria e della morte qui si uniscono in unico consiglio: godere della vita così quale è, metter da parte speculazioni amare, rituffarsi nel fluire del mondo, non più con la felicità antica che comportava una piena accettazione del mondo come perfezione, ma con rassegnata volontà di dimenticare quanto di doloroso e di rischioso ci sia nell’ignoto aldilà…”.

Quella che segue è la puntuale traduzione, meno letteraria ma sicuramente più scientifica, offerta dalla Bresciani.

Aprii la mia bocca alla mia anima, che potessi rispondere a ciò che aveva detto: “È troppo per me oggi, che la mia anima non discorra con me! È davvero eccessivo per esagerazione, è come se mi ignorasse. Non se ne vada la mia anima, ma aspetti per me […]. [Essa sta] nel mio corpo come una rete di corda, ma non le avverrà di evitare il giorno della disgrazia. Ecco, la mia anima mi porta fuori di strada, ma io non le do ascolto; mi trascina alla morte, prima che sia venuto a essa, e mi getta sul fuoco per bruciarmi […]. Si avvicina a me il giorno della disgrazia, e sta da quel lato come farebbe un [demone?]. Tale è colui che esce fuori per portarsi a lui. O mia anima, che sia incapace di consolare la miseria in vita, e mi scoraggi dalla morte, prima che sia venuto a lei, fa’ dolce per me l’Occidente! È forse una disgrazia? La vita è un’alterna vicenda, e anche gli alberi cadono. Passa sopra il male, perché la mia miseria dura. Thot mi giudicherà, lui che pacifica gli dei! Khonsu mi difenderà, lui che è lo scriba per eccellenza! Ra udrà le mie parole, lui che comanda la barca solare! Mi difenderà Isdes (Thot) nella Sala Santa, perché il bisognoso è pesato [coi pesi] che (dio) ha sollevato per me! È dolce che gli dèi allontanino i segreti del mio corpo!” Ciò che la mia anima disse: “Non sei forse un uomo? Tu invero sei vivo, ma qual è il tuo profitto? Prenditi cura della vita (?) come (se tu fossi) ricco”.

Ecco, il mio nome puzza, ecco, più che il fetore degli avvoltoi, un giorno di estate, quando il cielo è ardente. Ecco, il mio nome puzza, ecco, [più che il fetore ] di un prenditore di pesci, un giorno di presa, quando il cielo è caldo. Ecco, il mio nome puzza, ecco, più che il fetore delle oche, più (che il fetore) di un canneto pieno d’uccelli acquatici. Ecco, il mio nome puzza, ecco, più che il fetore dei pescatori, più che le insenature paludose dove hanno pescato. Ecco, il mio nome puzza, ecco, più che il fetore dei coccodrilli, più che star seduti presso le rive piene di coccodrilli.

A chi parlerò oggi? i cuori sono rapaci, ognuno prende i beni del compagno. (A chi parlerò oggi?) La gentilezza è perita, la violenza si abbatte su ognuno. A chi parlerò oggi? Si è soddisfatti del male, il bene è buttato a terra dovunque. A chi parlerò oggi? Un uomo che dovrebbe far adirare per le sue azioni malvage, fa ridere tutti per il suo iniquo peccato. A chi parlerò oggi? Si depreda, ognuno deruba il suo compagno. A chi parlerò oggi? Il criminale è un amico intimo, il fratello insieme al quale si agiva è divenuto un nemico.

La morte è davanti a me oggi, come quando un malato risana, come l’uscir fuori da una detenzione. La morte è davanti a me oggi, come il profumo della mirra, come seder sotto una vela in una giornata divento. La morte è davanti a me oggi, come il profumo dei loti, come seder sulla riva del Paese dell’Ebbrezza. La morte è davanti a me oggi, come una strada battuta, come quando un uomo torna a casa sua da una spedizione. La morte è davanti a me oggi, come il tornar sereno del cielo, come un uomo che riesce a veder chiaro in ciò che non conosceva. La morte è davanti a me oggi, come quando un uomo desidera veder casa sua, dopo molti anni passati in prigionia”.

Ciò che disse la mia anima a me: “Butta la lamentela sul piolo (?), camerata e fratello, fa’ offerte sul braciere, attaccati alla vita come ho detto. Desiderami qui, rinvia per te l’Occidente.

Quando giungerai all’Occidente Dopo che il tuo corpo si sarà unito alla terra, e allora abiteremo insieme”.

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Gli Egizi utilizzavano tre voci differenti per indicare l’anima: Ba, Ka, Akh, il cui significato risulta vago e contraddittorio non solo per la nostra mentalità occidentale ma anche per gli stessi egittologi, talora non concordi fra di loro, data l’inafferrabilità e la complessità concettuale di ordine iniziatico. Il primo termine Ba indica lo spirito del vivente, cioè la sua energia vitale, rappresentata come un uccello (forse la fenice rinascente) con testa umana, che con la morte si stacca dal corpo e s’invola verso l’aldilà. Il Ka, possiede una valenza esoterica molto forte, rappresenta il “doppio” dopo la morte, che consente al defunto la vita perpetua, per continuare nell’oltretomba come su questa terra. Il luogo di sepoltura è infatti chiamato “dimora del ka”. Il terzo termine, Akh, rappresentato da un ibis, costituisce la manifestazione luminosa della scintilla cosmica, il numen divino di cui partecipano i mortali.

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In alto: il Papiro n. 3024 conservato a Berlino e la sua trascrizione in caratteri geroglifici dell’incipit  (dal Faulkner, 1956)

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Libro dei Morti di Neferrenpet (età ramesside, XIX dinastia): il defunto al cospetto della propria anima (Regio Museo del Cinquantenario, Bruxelles)