Henri Matisse – il più mediterraneo, per predisposizione d’animo, dei pittori francesi – è l’artista che meglio ha saputo rendere nelle sue tele, non tanto per istinto quanto per consapevole scelta intellettuale, la presenza vivificante della luce. Egli, che amava dire: “La rivelazione m’è venuta dall’Oriente”, per sottolineare il proprio debito culturale nei confronti della spiritualità, della sensualità cromatica e lineare delle arti figurative orientali, così scrive a proposito di colore e di luce:
“Il colore contribuisce a esprimere la luce; non il suo fenomeno fisico, ma la luce che esiste di fatto, quella del cervello dell’artista“.
H. Matisse, Laurette con il vestito rosso, 1917 (Columbus Museum of Art)
H. Matisse, Laurette con turbante e vestito giallo, 1917 (National Gallery, Washington)
Sintomatico e significativo come il termine latino lux derivi dal greco λεύκος che vuol dire bianco.
In natura i colori dell’iride non sono altro che la scomposizione del raggio luminoso, rifratto attraverso una figura prismatica. Ed il bianco contiene in sé tutta la gamma cromatica.
Per evidenziare la valenza simbolica del colore, basterà ricordare che nel mondo Antico, e precisamente in ambiente greco, i colori fondamentali erano quattro.
“Quattuor coloribus solibus immortalia illa opera fecere: ex albis melino, ex siliceis Attico, ex rubris synopie Pontica, ex nigris atramento, Apelles, Echion [Aetion?], Melanthius, Nicomachus, clarissimi pictores”.
Plinio: Naturalis Historia (libro XXXV, c. 32).
Nella traduzione italiana suona: Apelle, Echione [Ezione?], Melanzio, Nicomaco, illustrissimi pittori, di solo quattro colori si servirono per le loro opere immortali: fra i bianchi del Melino (pasta caolinica dell’isola di Milo?); fra i gialli della silice d’Attica; fra i rossi della terra di Sinope nel Ponto; fra i neri dell’inchiostro.
Kylix a figure nere, pittore di Lisippide, Atene, VI sec. a.C. (Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera)
Pittura parietale, Tomba del tuffatore, V sec. a.C. (Paestum)
Venere e Amore, affresco pompeiano (Napoli, Museo Nazionale)
Ritratto su tela (Fayyum, Egitto greco-romano, III sec.), Atene, Museo Benaki
La cosiddetta tetracromia della classicità, costituita da bianco, nero, giallo e rosso, era basata sul principio degli opposti e della loro relazione con i quattro elementi primordiali di cui parla Empedocle: acqua-terra, aria-fuoco.
Dunque, come per i pitagorici, nella successione dei dualismi, la luce implica le tenebre, così come il bene presuppone il male.
I colori naturali dell’artista del paleolitico (generalmente ottenuti da caolino, carbon nero, ocre gialle e rosse) erano i medesimi quattro archetipici che sopravvivranno nella tradizione mediterranea.
Saranno quattro le nuance di colore che ritroveremo nell’opus sectile di età imperiale romana, quando i marmorari del primo secolo assembleranno i pregiati marmi a loro disposizione: il porfido rosso, il serpentino verde, il giallo di Numidia, il pavonazzetto, commessi ad intarsio nella cosiddetta quadricromia neroniana.
Pavimento ad opus sectile, con inserti di porfido, verde ranocchia, giallo d’Africa e pavonazzetto, dalle Piccole terme di Villa Adriana (Tivoli)
Commesso in marmi colorati, età tardo antica (Musei Capitolini, Roma)
I maestri cosmateschi romani di età medioevale continueranno nella tradizione ereditata dal mondo classico, accostando i marmi secondo la tecnica qualitativa, cromatica e compositiva appresa direttamente dai monumenti superstiti a disposizione.
Pavimento cosmatesco: S. Giovanni a Porta Latina, Roma (in alto); S. Clemente (in basso)
Alla base della riproduzione fotocromatica dei nostri giorni ancora quattro sono i colori fondamentali: rosso, giallo, blu e nero. Il bianco è considerato, come già detto, un non-colore.
Quadricromia di stampa fotografica
Diluenti e leganti delle terre colorate utilizzati dagli artisti delle origini dovettero essere di varia natura organica: dalle resine agli estratti vegetali, dal midollo al latte o, addirittura, dall’urea al sangue.
L’uomo paleostorico, inizialmente, si servì delle dita ma anche di cannucce, attraverso le quali soffiava il pigmento (come nel caso della “imprimitura” in negativo delle mani sulla roccia), per poi passare a spatole e rudimentali setole.
Lo si è desunto, per analogia, da alcune osservazioni fatte (già al principio del secolo scorso) da esploratori ed etnologi, studiosi degli usi tribali in Africa ed Oceania o presso le popolazioni amerindie.
Grotta di Altamira, Spagna
Fezzan, Sahara libico
Cueva de las manos, Patagonia
L’africanista Leo Frobenius nei suoi rapporti di viaggio in Africa sud-occidentale (1931) racconta che i giovani delle tribù senegalesi erano soliti rinfrescare il rosso delle pitture rupestri con il proprio sangue.
Studiando i residui organolettici, nelle più antiche pratiche di inumazione osservate dai paletnologi, si è potuto ricostruire come l’uomo dell’età della pietra fosse solito colorare il defunto con polveri vermiglie. Questo non solo ribadisce il carattere simbolico del colore rosso, associato al sangue, cioè al concetto della vita stessa; ma anche lascia intravedere l’intenzione (o piuttosto l’illusione) magico-religiosa, da parte dei nostri progenitori, di poter assicurare la continuità della vita oltre la morte.
M. Maier, da Atalanta Fugiens, Oppenheim 1618
L’Opus Magnum degli alchimisti, nella rappresentazione figurata della metamorfosi del proprio transeunte Ego in un definitivo Sé – quasi si trattasse di una trasformazione in un athanor, ottenuta per lentissima ebollizione, del metallo vile in oro – si serve per l’appunto degli stessi quattro colori di cui parlavano i presocratici. Le fasi attraverso cui avviene l’evoluzione chimica da corpo solido a volatilità aeriforme (cioè da materia a spirito) sono infatti per gli esoteristi ancora quattro: Nigredo, Albedo, Citrinitas, Rubedo che, come lascia intendere la nomenclatura latina, sono legate al nero del corvo (fase di macerazione e decomposizione dell’elemento); al bianco del cigno (la purificazione); al giallo del pavone con la fantasmagorica iridescenza della sua ruota; e, per finire, al rosso della mitica fenice, uccello della rinascita dalle proprie ceneri, consolatoria risposta all’enigma che disorienta l’uomo dinanzi al dolore del trapasso.
Primus in orbe deos fecit timor
arch. Renato Santoro, 25 giugno 2016
IN COPERTINA
Pavimento cosmatesco, S. Crisogono (Trastevere, Roma)