UNA BRUTTA GIORNATA DI OTTONE ROSAI

Sorgerà un artista come una brutta giornata. Una di quelle giornate d’inverno tutte nere, fredde, pungenti, dalla pioggia appuntita e frenetica che ti sbatte in faccia e sul corpo a cenciate quasi fossero lanci a manciate di pruni.

Di dolore avrà fatta la vita, continuo, infinito, per non poter giungere a dare con la sua opera la pace né a sé né agli altri.

O. Rosai, L’essenziale, in “Il frontespizio”, anno XV, n. 4, Vallecchi, Firenze 1937

Frontespizio

In alto: O. Rosai, La pioggia, olio su tela, collezione privata

Si appresta a compiere 42 anni il fiorentino Ottone Rosai quando scrive queste sue laceranti riflessioni esistenziali sull’essere uomo di penna e di pennello. Una confessione che porta con sé tutte le inquietudini, le contraddizioni e i conflitti che preludono alla scissione della propria anima.

Ottone-Rosai

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ stato detto e ripetuto che Rosai fu campione della inconciliabilità degli opposti. Le sue posizioni politiche, la sua condotta privata, in un periodo storico del nostro Paese assai delicato sotto il profilo delle libertà individuali, hanno contribuito a formulare su di lui una serie di valutazioni pregiudiziali che per lungo tempo l’hanno posto ai margini della cultura ufficiale.

Il suo essere stato apertamente convinto sostenitore del partito fascista, se da un lato gli spianò la strada per alcuni incarichi professionali come la cattedra accademica, dall’altro gli alienò le simpatie del milieu artistico nazionale del secondo dopoguerra che diffidò di lui e in qualche modo lo confinò in disparte.

A sparigliare ancor più le carte in tavola dei suoi detrattori politici l’essere transitato con disinvoltura, a fine guerra, dalle camicie nere a quelle rosse, dando rifugio, fra le sue mura di casa, ai militanti del GAP – Gruppo di Azione Patriottica – che avevano giustiziato il filosofo Giovanni Gentile, reo di avere aderito alla Repubblica di Salò. Salvo poi dissociarsi da loro apostrofando duramente l’amico Bruno Fanciullacci che aveva partecipato all’agguato: “Bella impresa uccidere un povero vecchio!” *.

* R. Uboldi, Vigliacchi perché li uccidete?, in “Storia Illustrata”, n. 200, Mondadori, Milano luglio 1974, p. 56

A ciò si aggiunga non solo la disaffezione in quegli anni di sperimentazione verso il figurativismo, verso certi atteggiamenti da Strapaese, ma anche – e non di meno – per le sue notorie inclinazioni sessuali, in un’epoca di pruriginoso puritanesimo, sia di matrice democristiana sia di matrice comunista.

La buoncostume di Firenze era a conoscenza di certe sue peregrinazioni notturne in cerca di ragazzi di vita ma aveva sempre chiuso un occhio grazie alle sue vantate protezioni politiche. Si era sposato all’età di ventisette anni nel 1922 con Francesca Fei, una giovane impiegata del quotidiano “La Nazione”, in una stagione piuttosto difficile della sua vita, coincidente con il suicidio del padre Giuseppe, falegname oberato dai debiti, che costrinse Ottone Rosai a prendere in mano le redini dell’attività paterna e farsi carico delle responsabilità vitali di quotidiana sopravvivenza familiare. Con il matrimonio gli parve di ritagliarsi un angolo di tranquilla rispettabilità borghese. Ma presto dovette fare i conti con le sue pulsioni omoerotiche che non era riuscito a sopire. E’ il suo intimo amico Piero Santi – che non faceva mistero del proprio orientamento sessuale – a farcelo capire, con velate discretissime allusioni, fra le righe della  biografia dell’artista da lui tracciata nel 1966.

In questo suo forsennato vagabondare border-line per certi aspetti si ritrova la pena che avevamo visto divorare le notti insonni di altri celebri artisti di quegli anni fra le due guerre: da De Pisis a Cagli e Janni, da Saba a Palazzeschi e Gadda, che il clima repressivo e moralista del Regime costringeva alla clandestinità.

E sulle tele di Rosai – oltre quelle a tutti ben note degli omini all’osteria, delle strade d’Oltrarno, delle nature morte – con rapide e convulse pennellate, così diverse dai chiaroscuri e dalle sfumature cromatiche della sua produzione ufficiale, sembra quasi raggrumarsi il desiderio impulsivo per quei corpi efebici di giovani popolani che passavano per il suo atelier e sotto le lenzuola del suo letto.

ottonerosai

 

 

 

 

 

 

 

La Firenze in cui si muove Rosai, tra San Frediano, il Forte del Belvedere, via San Leonardo, da lui raccontata, oltre che nei quadri, nei sapidi e robusti romanzi pubblicati fra il 1919 ed il 1934 – da Il libro di un teppista a Via Toscanella e Dentro la guerra – è la Firenze euforizzante di Papini, Prezzolini, Maccari, Ardengo Soffici, di “Lacerba”, dello Strapaese rivendicato dalle pagine di “Il Selvaggio”. Ed è giocoforza respirarne gli umori. Dopo la prima infatuazione futurista, sia politica sulla spinta mussoliniana di Marinetti, sia artistica – cui segue il periodo di inattività imposto dai contingenti problemi lavorativi – negli anni Trenta riesce ad elaborare una propria e riconoscibilissima cifra estetica, che affonda le radici nel primitivismo toscano di un Masaccio filtrato attraverso l’esperienza e la sensibilità moderna di un Cezanne.

1922 don ardengo sofficiIN ALTO: Ardengo Soffici e Ottone Rosai a Firenze, 1922

Toscanaccio impenitente, Rosai è sanguigno e sfrontato. A tratteggiare un ritratto della sua insolenza tutta fiorentina è un altro “maledetto toscano” di valore, il giornalista Indro Montanelli in un articolo apparso sul “Corriere” di molti anni fa.

Sul Rosai pittore avrei ben poche cose da aggiungere alle tante che su di lui si sono scritte e dette. Ma sull’uomo Rosai posso aggiungerne di inedite perché l’ho conosciuto benissimo e fummo anche amici per quanto si potesse esserlo di un tipo, anzi di un tipaccio scorbutico, aggressivo e litigioso come lui.
Era nato in San Frediano, il quartiere più popolaresco, anzi «ciompo» di Firenze, che per il carattere rissoso dei suoi abitanti sembrava rimasto alla Firenze contradaiola, torva e aggressiva del Duecento. Figlio di un povero stipettaio, Ottone ne condivideva i caratteri (lo chiamavano «Dioboia» perché questa era la sua bestemmia preferita, che nel suo rado parlare interpolava quattro o cinque volte in ogni frase), e fisicamente somigliava fin da adolescente a uno di quegli omoni massicci che i suoi quadri raffigurano quasi sempre di spalle sullo sfondo dei vicoli di là d’Arno, o seduti in una taverna foderata di botti col gotto di vino davanti e le carte in mano.
Anche d’idee politiche doveva essere dei loro, ma venne la prima guerra mondiale, Ottone fu richiamato e spedito sul Carso, ne tornò con alcune medaglie, ne fu sbeffeggiato dai suoi vecchi amici, naturalmente rossi che più rossi non si può, e allora lui diventò altrettanto nero, e credo che in tutta la contrada fosse il solo a esserlo. A gambe larghe, tenendo la faccia nascosta dietro il giornale aperto davanti agli occhi, ostruiva il vicolo ai dimostranti, i quali sapevano che dietro quel giornale c’era anche una mano armata di pistola con cui Dioboia aveva molta familiarità. 


Ciononostante Dioboia rimase sempre ad abitare lì, fra le quattro mura lasciategli dallo stipettaio a rappresentare nelle sue tele, su quegli sfondi di contrada duecentesca, quell’umanità massiccia e ostile cui egli stesso apparteneva.
E fu lì che mi condusse a conoscerlo un ragazzo che, dolce e mite, era tutto il suo contrario, e che forse appunto per questo gli s’era affezionato: Vasco Pratolini, il futuro autore di «Poveri amanti», uno dei più struggenti romanzi del dopoguerra, di cui naturalmente non si sente più parlare.
Non diventammo mai amici, Rosai ed io. Ma cominciammo a vederci qualche volta, cioè quando mi capitava di andarci, alle «Giubbe Rosse», il ritrovo della «fronda» (Montale, Loria, Carocci, Palazzeschi, ecc.), che Rosai, entratoci da nemico, prese poi sotto la sua protezione anche perché nel frattempo si era – come si diceva – «sdubbiato» con «quell’omìno» che era Mussolini. Ma noi sapevamo che lo sdubbiamento veniva dal fatto che Mussolini, dopo avere, sulle insistenti pressioni di Soffici, convocato Rosai a Palazzo Venezia, si era rifiutato di riceverlo se non in alta uniforme del partito. Probabilmente era stata un’idea di Starace, non di Mussolini. Ma Ottone non ne aveva più voluto sapere. «Voleva, Dioboia, che mi travestissi da maggiordomo come tutti gli altri». E giù improperi contro il regime agitando quelle sue mani da strangolatore che incutevano paura a tutti.


Quando, dopo la Liberazione, seppi ch’era diventato comunista, non ne fui sorpreso, e tanto meno indignato. Lo era sempre stato, nella sua pittura, anche quando indossava la camicia nera. Io avevo comprato quando si pagavano due o trecento lire l’una, cinque tele di Rosai che i tedeschi mi portarono via quando mi arrestarono. Naturalmente non le ho più ritrovate, e me ne dispiace. Pur non amando la sua pittura, capivo che Rosai era un pittore.

I. Montanelli, Quel tipaccio scorbutico di Ottone Rosai, in “Il corriere della sera”, 3 luglio 2001

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Tutta la sua vita, dell’uomo e dell’artista, ruotò e si consumò attorno al capoluogo toscano, dove era nato il 28 aprile 1895, dal quale non si allontanò che sporadicamente. Fu proprio mentre si trovava fuori dalla sua Firenze, ad Ivrea per organizzare una mostra al Centro culturale Olivetti, che fu colto da infarto il 13 maggio 1957, alla vigilia del vernissage.

In occasione del suo funerale il poeta Carlo Betocchi vergò queste righe accorate.

Una grande stagione di poesia è finita. E la morte di Rosai è una di quelle a cui si addirebbe il lamento di Lorca per la morte del torero.

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ragazzo che rideO. Rosai, Ragazzo che ride, olio su tela, 1928 (Roma, Camera dei Deputati)

rosai 32O. Rosai, disegno, 1932

ritratto di ragazzoO. Rosai, Ritratto di ragazzo (Sergio Donnini), olio su tela, 1933 (collezione privata)

I ragazzi di Ottone Rosai (anni ’40)

Rosai nudo maschile

Immagine rosai 2Immagine rosai 3

nudo di schiena 1947

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ritratto di due giovani

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rosai nudo giovane

rosai nudo di giovane

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fra gli anni ’40 e ’50 la sua vena sembra isterilirsi e la produzione prosegue stancamente ripetitiva. Come mette in guardia lo stesso Pier Carlo Santini – curatore della sua ultima mostra di Ivrea, che Rosai non farà in tempo a inaugurare – è anche alto il numero di tele apocrife di cui il pittore, per pigra convenienza, avalla l’autenticità.

Di lui con questi accenti parla Massimo Carrà:  “del popolano Rosai ha sì il senso concreto, esatto della realtà; ma insieme possiede una concezione estremamente raffinata dell’arte e del sentimento: qualità di delicatezza di un animo tenero e aspro, emotivo e a modo suo aristocratico, che non esclude – quando occorre – una vigilata ironia“.

A fargli eco incontriamo Anna Maria Brizio, così  come citata da Alberto Busignani: “Ottone Rosai, pittore di bello smalto, che del popolano possiede la schiettezza rude, ma anche quell’aria fra spregiudicata e saccente che lo limita, e un gusto vivissimo del commento spavaldo e caricaturale”.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

O. Rosai, Vecchio autoritratto, Vallecchi, Firenze 1951

P. C. Santini, Ottone Rosai, Centro culturale Olivetti, Ivrea 1957

P. Santi, Ritratto di Rosai. Lineamenti di un’esistenza, De Donato editore, Bari 1966

C. Betocchi, Lamento per Ottone Rosai nella sera della sua morte [1957], in C. Betocchi, 100 opere di Ottone Rosai, Galleria d’arte moderna F.lli Falsetti, Prato 1966

M. Valsecchi, F. Russoli, L. Cavallo, Ottone Rosai, Edizioni Galleria Michaud, Firenze 1968

R. Bilenchi, I silenzi di Rosai, Edizioni Galleria Pananti, Firenze 1971

M. Carrà, Neoumanesimo, Arcaismo, Primitivismo, in L’arte moderna, vol. IX, Fabbri,Milano 1975, pp. 169-174

A. Busignani, I Macchiaioli, in Conoscere l’Italia. Toscana, vol. 1, De Agostini, Novara 1979, p. 257

P. C. Santini, Ottone Rosai, in Arte in Italia 1935-1955, Edifir, Firenze 1992, pp. 163-165

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