L’ARTE DI COSTRUIRE NELL’EGITTO TOLEMAICO E ROMANO

La sapiente Seshat, paredra di Thot[1], è la dea (FIG. 1) sotto la cui ala trova tutela il mestiere dei maestri costruttori. Un collegio di suoi sacerdoti è delegato a tracciare l’impianto planimetrico degli edifici e, grazie al merkhet (strumento di misurazione, sorta di rudimentale teodolite ante litteram), a impostarne l’orientamento.

seshat

FIG. 1: rilievo della dea Seshat (dal tempio di Ramesse II a Luxor, XIX dinastia)

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FIG. 2: affresco dalla tomba del visir Rekhmira, XVIII dinastia (dalla necropoli tebana)

Quando i macedoni fondano Alessandria, l’arte di costruire presso gli egiziani ha già una tradizione bimillenaria. A tecnica, materiali, mano d’opera messi a disposizione dall’Egitto per i nuovi cantieri, si sommerà un valore aggiunto: gusto e stile dell’arte architettonica greca.

Le risorse fisiche offerte dai luoghi (pietra, legname, metallo etc.) sono determinanti per le caratteristiche e le tipologie costruttive dell’architettura di un Paese[2]. Così è per l’Egitto la cui conformazione geologica fa sì che nel territorio, per tutta la sua estensione lungo il Nilo, ad est e ad ovest delle sue rive – fatta eccezione per la zona alluvionale del Delta – vi sia abbondanza di pietre naturali e cave di estrazione: rocce metamorfiche (gneiss e scisti cristallini) diffuse un po’ ovunque; rocce eruttive intrusive (graniti, sieniti, dioriti, porfidi) attorno ad Assuan e verso la Nubia; lungo il Mar Rosso e nel Sinai (dalla penisola sinaitica si estraevano rame e turchese).

Per costruire si utilizzavano soprattutto arenarie, pietre calcaree ed alcune qualità alabastrine; ma anche pietre dure come graniti, quarziti, basalto (di cui l’Alto Egitto nubiano era ricco) ed il porfido, particolarmente apprezzato in età romana. Un buon calcare, largamente in uso sin dall’Antico Regno, era quello proveniente dalle cave di Tura e Ma’sara, sulle colline di Mokattam presso il Cairo. Da Gebel el-Ahmar, la cosiddetta “Montagna Rossa” che sovrasta i dintorni orientali della capitale egiziana, veniva estratta la quarzite. A nord del Fayyūm, presso Qasr el-Sagha in direzione del deserto Libico, sono state individuate cave di basalto. Presso Hatnub si scavava una qualità di calcite-alabastro e la località (nell’Egitto centrale, tra Amarna e Antinoupolis), era per questo chiamata dai greci Alabastron Polis. Sempre nel Medio Egitto, il porfido era estratto a  Gebel Abu-Dukhan, il Mons Porphyrites dei romani. Poco più a sud, nel deserto orientale tra il Nilo ed il Mar Rosso ai piedi del Gebel Fatira, è il Mons Claudianus, una colonia penale di età romana, organizzata per l’estrazione di diorite di quarzo e granito. Cave di arenaria erano presenti a Gebel el-Silsila nell’Alto Egitto (tra Ombos e Syene), mentre dal deserto a sud-est di Abu Simbel proveniva una qualità di gneiss-anortite conosciuta come “diorite di Chefren”.

A calcari ed arenarie, inadatti per lunghi architravi, si poteva preferire il granito, rosso o grigio, proveniente dal sud del Paese.

I romani attingevano a mani basse dai giacimenti egiziani per i loro monumenti e dalla valle del Nilo confluivano sino all’Urbe i blocchi di marmo pregiato, le colonne e gli obelischi che avrebbero reso splendida la capitale dell’Impero, come ce ne darà ampio resoconto Plinio nella sua Naturalis Historia. Il prestigioso marmor alabastrum, legava il proprio nome alla menzionata cittadella del Medio Egitto[3]. Fra le rocce serpentinose, il verde ranocchia o lapis ophites, era apprezzata la varietà che l’erudito latino chiama lapis augusteus e dichiara proveniente dall’Egitto già sotto il principato di Augusto. La breccia verde d’Egitto[4] era estratta dalle cave di Qoseir[5] nelle montagne dell’Egitto centrale, prospicienti il Mar Rosso. I latini chiamavano lapis haethiopicus il granito nero proveniente da Syene (Assuan), spesso confuso con il basalto. Il basalto vero e proprio, era detto lapis basanites perché, stando a Plinio, duro come il ferro[6]. E proprio da questo estremo lembo meridionale del paese egiziano si estraeva la sienite, detta lapis pyrhopoecilus per il suo colore in tutte le gradazioni purpuree, dal chiaro allo scuro, cioè il granito rosso degli obelischi. Il lapis psaronius[7] era invece il granito grigio nella sua varietà nera su fondo di quarzo bianchissimo, proveniente dal Mons Claudianus. Infine, richiestissimi erano i porfidi, il lapis porphyrites detto anche thebaicus perché originario dalle catene montuose di quella regione, tra il Nilo ed il Mar Rosso. Il suo colore primario era, naturalmente, il rosso; ma se ne trovavano anche varietà grigie o verdi.

Il legname disponibile era quello di acacia e di sicomoro, utilizzato solo per lavori artigianali; le palme (da dattero e dum), essenze arboree diffusissime ovunque, si rivelavano utili per le coperture delle costruzioni comuni. Invece il legno più pregiato e resistente, come il cedro, usato per fabbriche più impegnative, veniva importato dalle foreste del Libano e di Cipro (il regno dei Tolomei si estendeva dalla Cirenaica alla Fenicia e sull’isola del Mar di Levante).

Anche le caratteristiche climatiche, come noto, diventano significative ed influenzano le scelte tipologiche adottate dai costruttori. Sicché le specificità ambientali e stagionali di un paese caldo ed asciutto come l’Egitto han fatto sì che trovassero millenaria diffusione i mattoni crudi essiccati al sole[8] (FIG. 2), rivelatisi  assai durevoli nel tempo.

Nella zona di Alessandria, che gode di un clima mediterraneo improntato alla variabilità e dove la piovosità non è così rara come nel resto del Paese, trovarono maggiore impiego i mattoni cotti di cui i romani furono i primi fautori. Purtroppo della capitale dei greci e dei latini, forse a causa della rapidità con cui la città fu edificata e, forse, per la qualità dei materiali adoperati, a fronte degli eventi patiti nei secoli (incendi, terremoti, assedi, erosione marina), troppo poco è rimasto. E se non fosse per le mirabilia narrate dai logografi dell’epoca, oggi non potremmo farcene che una pallida, sbiadita idea.

Quanto ai modelli tipologici, i templi costruiti dai Tolomei e dagli imperatori romani non si discostano dalla consolidata tradizione egizia e, in sostanza, rispettano quasi pedissequamente forme e strutture degli storicizzati esempi locali. Solo nell’impianto planimetrico si rileva una maggiore compostezza simmetrica ed una regolarità di allineamento assiale, derivate dall’attitudine ellenica ed ellenistica all’equilibrio d’insieme. Nelle tipologie funzionali prettamente greco-romane, edifici pubblici, ginnasi, biblioteche, odeon, terme etc. era giocoforza attingere ai modelli di Atene o di Roma. Ed anche per l’edilizia privata dei nuovi dominatori, dai ceti facoltosi a quelli medi e meno abbienti, ci si rivolgeva ai moduli dei Paesi d’origine. Le residenze delle famiglie ricche erano strutturate secondo gli schemi greci e romani della casa a pastàs e della domus, mentre nei quartieri popolari si ha notizia di costruzioni intensive a più livelli sovrapposti, cioè come le insulae che si potevano incontrare ad Ostia o nella stessa Roma. In un papiro di Ossirinco[9], nel fornire istruzioni ad un postino per la consegna di una lettera ad Hermoupolis, si trova scritto addirittura: “sulla destra vedrai una casa di sette piani”, come per i caseggiati pullulanti di inquilini, raccontati dal Satyricon petroniano. 

arch. Renato Santoro, Roma 2014  

NOTE  BIBLIOGRAFICHE                                                                                                    

[1] Non ne è ben chiaro il grado di parentela: sorella, compagna o figlia, cfr. M. Tosi, Dizionario delle divinità dell’antico Egitto, Ananke, Torino, sub voce, p. 138

[2] B. Fletcher, Storia dell’architettura secondo il metodo comparativo, Milano 1967, p. 15; R. Klemm, Rocce e cave in R. Schulz, M. Seidel, Egitto. La terra dei faraoni, Milano 2007, pp. 411-415

[3] F. Corsi, Delle pietre antiche, Roma 1828, p. 81: “Presso la città di Tebe in Egitto giusta l’autorità di Plinio (Nat. Hist. L  37, 109) esiste un castello chiamato Alabastro da cui tolse il nome la pietra che prima chiamavasi onice”

[4] Si tratta di una puddinga in cui si concentrano parti di porfido, granito e basalto e quarzo inviluppati da un feldspato compatto, cfr. M. Pieri, I marmi d’Italia, Milano 1964, p. 30

[5] C.P. Brard, Minéralogie appliquée aux arts, Paris 1821, tomo II, p. 250 e sgg.

[6] F. Corsi, op. cit., p. 114: “…Plinio, (Nat. Hist.,  L. XXXVI, 58) il quale ha scritto che in Etiopia si trovò una pietra che si chiama basalto , di colore e durezza di ferro, d’onde tolse il nome”

[7] Il nome gli deriva dalla somiglianza con le penne dello storno, in greco psaròs, M. Pieri, op. cit., p. 31

[8] N. Davey, Storia del materiale da costruzione, Milano 1965

[9] A. K. Bowman, L’Egitto dopo i faraoni, Giunti, Firenze 1997, p. 165

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