RITUALE  MAGICO  DELL’ARTE  E   SORTILEGIO PROPIZIATORIO  DELL’ARTISTA

Dalla radice indoeuropea dheugh derivano i temi greci (τυχ, τυκ e τευχ) cui sono collegate le etimologie delle forme verbali che indicano azioni come il costruire, il lavorare con arte, espresse dalle voci: τεύχω, τεχνάομαι, τεκταίνω (più propriamente: intagliare).

Ad esse, a loro volta, sono connessi i termini  τέχνη, τέκτων e relative espansioni; e di analoga radice sanscrita (dehah), egualmente riferita al costruire, è la voce τεϊχος (muro) [1]. Significativa è l’affinità con il derivato del  tema τεκ, cioè con τίκτω (generare), che ripresenta in greco quella stessa relazione che esiste, non solo nel sanscrito [2], ma anche nell’antico vocabolario egizio tra i termini plasmare, costruire ma anche fare (in senso generico) e congiungersi, procreare, espressi da un medesimo segno geroglifico.

L’ideogramma di un piccolo otre ansato (che esprime la voce hnm[3] è infatti desunto dall’attività del dio-ariete Khnum (FIG. 1) intento al tornio da vasaio a generare gli uomini [4].

FIG. 1 – iconografia del dio creatore Khnum

Dunque, come si è anticipato, il lessico ellenico per esprimere il concetto di arte si serve di un vocabolo – τέχνη –  che contiene in sé la nozione della produzione fisica, della manualità, di quella valentia artigianale e abilità necessarie per scolpire il legno, edificare muri, lavorare i metalli.

L’esperienza acquisita viene trasmessa agli apprendisti; e così αρχιτέκτων è il maestro costruttore che, riunito in  corporazione, istruisce l’allievo.

Quindi arte, per i Greci, è  realizzare, strutturare; così come ancora ad un verbo che esprime il significato di fare (ποιέω), è collegata l’etimologia di una attività dello spirito – e così poco materiale – come la poesia. La qual cosa ci lascia supporre che i Greci dovessero avere un senso pragmatico, operativo, oggettivato, dell’opera artistica. E, di conseguenza, in vista di una specificamente richiesta maestria, di un virtuosismo manifatturiero, era necessario codificare nel canone (trasmissibile di generazione in generazione) la pratica accademica. Avviene però che molta produzione di bottega greca, per quanto ineccepibile dal punto di vista formale, pur risultando di squisita fattura e del tutto rispondente a quel ideale di bellezza cui sembra conformata l’estetica ellenica, ci lasci freddi sotto l’aspetto emozionale (tecnico, che è pur l’aggettivo derivato da τέχνη, in italiano ha assunto una accezione opposta ad artistico).

Perché accade questo?

Una risposta al nostro interrogativo retorico la possiamo trovare, in ambito estetico, in alcune pregnanti considerazioni di  Martin Heidegger.

Per i greci quel che è presente a partire dalla  natura è ciò che sboccia da se stesso e così si manifesta. Quel che non deve la sua presenza alla φύσις, bensì giunge alla presenza grazie al pro-durre da parte dell’uomo è  τέχνη. Osservando come, in analogia intrinseca con la lingua greca, anche la parola tedesca Kunst derivi da Kennen (ossia, intendersi di una cosa e della sua produzione) il filosofo conclude che “…Τέχνη e arte non significano perciò un fare, bensì un modo del conoscere [5].

Con un richiamo ad Aristotele e all’equivalenza tra arte e ποίησις, per il pensatore tedesco  “…ποίησις significa portare-fuori-da, “fuori” significa nel non-nascosto, e “da”, a partire dal nascosto [6]. “In un passo del Convito – spiega Heidegger – Platone ci dice in che cosa consiste questo atto che è il condur fuori: “Tutto ciò che fa passare una qualsiasi cosa dalla non presenza alla presenza è ποίησις, è produzione [7]“. In questo senso l’opera d’arte è opera di svelamento, di α-λήθεια e, quindi, di verità. “L’artista traspone in un’immagine quel che essenzialmente è invisibile e, se corrisponde all’essenza dell’arte, ogni volta fa vedere qualcosa che non era stato ancora visto [8] “.

 Presso i Latini, la cui lingua e cultura sono fortemente debitrici della civiltà greca, il vocabolo ars rimanda ad un radicale ar (=αρ) che in greco è origine del verbo  αρτύ(ζ)ω, il cui  significato è: ordinare, disporre, preparare acconciamente;  dell’aggettivo derivato άρτιος (proporzionato, adattato); ma anche di αρμόζω (connettere, accordare) e – si badi – della voce correlata αρμονία.

Quindi il senso di  ars è qualcosa di ben articolato, disposto secondo uno schema studiato e armonico. Ed anche per i Romani, come per gli Elleni,  esiste un nesso linguistico tra il verbo facio ed alcuni significati legati all’attività artistica, come facies (aspetto) e factura (composizione). Dal latino tardo facticius [9] deriva il portoghese feitiço (ritornato in italiano come feticcio).

E’ stato più volte osservato che presso tribù negrille di Pigmei nell’Africa centrale , tra cui furono riscontrati  superstiti comportamenti primitivi paragonabili, od almeno assimilabili, a quelli del nostro passato preistorico, prima di una spedizione di caccia lo stregone del gruppo disegna la sagoma dell’animale da uccidere e sulla rappresentazione rituale della vittima vengono scagliate le punte delle armi usate dai cacciatori. Come si intuisce, la messinscena  figurativa nasce dall’intento di possedere, di appropriarsi della cosa “evocata” onde esercitare su di essa la propria volontà, il proprio dominio. E’ lo stesso meccanismo che spinge la fattucchiera ad ordire i propri sortilegi.

Nell’atto figurativo dello stregone primitivo, che in questo suo ruolo rappresenta quasi un archetipo di artista (od un artista archetipico), non c’è dunque una banale valenza mimetica, ma intenzione creatrice. Il bisonte di Niaux (FIG. 2) su cui i nostri progenitori trogloditi hanno disegnato le amigdale di rozzi strumenti venatori, non è una rappresentazione ma un azione creatrice di impossessamento (quella che Arnold Hauser chiama uccisione in effigie [10]).

FIG. 2 – Grotta di Nieaux (presso Ariege, Francia), pittura rupestre del Maddaleniano

E’ un vero e proprio e-vocare, cioè richiamare direttamente dalla sfera delle idee e quindi oggettivare quell’intuizione che è a fondamento e principio della volontà creatrice dell’homo faber nell’attimo in cui si accinge a diventare sapiens. L’arte è la soglia che separa il mondo delle idee dal mondo fenomenico e l’artista è il medium che celebra il rito di passaggio dall’una all’altra dimensione.

Per l’uomo dell’età della pietra, allorché magia, religione ed arte (cioè senso e sovrasenso) si mescolano,  più sottile è il filtro, la membrana che separa il terreno e l’ultraterreno; e per questo motivo si può davvero parlare di picchi elevati dello spirito intuitivo e di comunione misterica. E’ quasi una visione rovesciata della teoria evoluzionistica, dove l’allontanarsi dal punto di origine segna un progressivo affievolirsi delle capacità  creatrici dello sciamano. Non a caso Platone, che è un grande iniziato, considera l’arte imitativa del proprio tempo, lontana di tre gradi dalla Verità (in quanto copia del mondo fenomenico che, a sua volta, è copia di quello delle idee) [11].

Nella mitologia egizia il dio creatore Ptah (FIG. 3) viene definito il vasaio dei vasai, lo scultore degli scultori. Egli è la divinità benefica che ha plasmato gli altri dei ed ha disposto in ordine il mondo. Anche nella religione ebraica il Dio della Bibbia modella Eva da una costola di Adamo, come fosse argilla.

Iconografia di Ptah

Dunque nel mondo antico la divinità creatrice viene divulgata, in senso figurato, alla stregua di un maestro artigiano. La confraternita iniziatica dei Dattili Idei, sorta di setta magico-sacerdotale nell’isola di Creta, erano detti così [12], probabilmente, perché destri nella manualità; ad essi veniva attribuita l’invenzione della metallurgia e della lavorazione degli utensili.

Assai suggestiva è la leggenda, nel mondo classico greco-romano, sulla nascita del ritratto.E’ riferita da Plinio [13], e viene attribuita alla figlia di Boutades, scultore di Sicione nel Peloponneso. La fanciulla, all’approssimarsi della partenza del giovane di cui era innamorata, nell’estrema illusione di fissarne l’idea-ricordo, ne tratteggiò la sagoma sulla parete, contro la quale veniva proiettata dalla lanterna al centro della stanza (FIG. 4).

FIG. 4 – Joachim von Sandrart, il mito di Boutades (incisione, 1675)

E’ presente, ancora una volta, dunque, il già espresso concetto, osservato per l’arte rupestre dell’età della pietra, di appropriazione dell’altro da sé, della propiziazione dell’evento. L’espediente, lo strumento medianico è costituito dall’idolo simbolico (nell’accezione greca del termine είδωλον), inteso come suggerimento, evocazione dell’oggetto di desiderio. Ma ricorre anche, nell’invenzione letteraria della lucerna che illumina il corpo del giovane e ne restituisce l’ombra, il tema platonico della parvenza illusoria della realtà che sarà argomento del cosiddetto mito della caverna.

LA PAURA HA CREATO L’ARTE?

Il frammento latino che recita: La paura ha creato gli dei [14], solitamente attribuito a Lucrezio (per la compatibilità con lo stile e la filosofia del destabilizzante poeta latino), è alla base di quel medesimo concetto ripreso ed ampliato dal Feuerbach: “La variabilità della natura, soprattutto in quei fenomeni che fanno maggiormente sentire all’uomo la sua dipendenza da essa, è la ragione principale per cui essa …viene da lui venerata religiosamente.”

“…Il sentimento di dipendenza dalla natura… è il fondamento del sacrificio, l’atto essenziale delle religioni naturali.[15]

A volerne estendere il senso, la medesima cosa può dirsi per l’origine dell’arte, nata dal bisogno e dal desiderio dell’uomo primitivo: bisogno di addomesticare un intorno naturale ostile; desiderio di piegarne le forze  attraverso un rito propiziatorio a carattere magico/superstizioso (di empatia psichica con l’ambiente).

La raffigurazione messa in atto dall’uomo pleistocenico, come s’è detto, non costituisce una rappresentazione, cioè una riproduzione del contingente, bensì una pre-figurazione di quello che accadrà; costituisce cioè una proiezione temporale in un futuro ottativo che implica la nascente consapevolezza del tempo. In una chiave di lettura quasi bergsoniana, è chiaro che quell’ignoto artefice dei più remoti graffiti rupestri, siano essi pirenaici o sahariani, possiede già entro di sé una percezione del tempo ricorrente ed avvolgente.

Ed, in particolare, entro quel torno di tempo interiorizzato (e reso personale dal proprio desiderio)  dovrà forzatamente risolversi il soddisfacimento delle proprie necessità, giusto in virtù di quel sortilegio teso a piegare la natura alle primarie esigenze della sopravvivenza quotidiana. Materializzandolo figurativamente, l’uomo riesce a possedere, in termini simbolici, l’obiettivo dei propri bisogni. E’ l’espansione osmotica dell’Uomo verso la realtà fenomenica, attraverso tutti i propri sensi (vista, udito, tatto etc.); cioè egli entra in comunione empatica con  la Natura in un flusso di eiezione – ricezione.

A proposito dell’organo visivo  Wittgenstein scrive: ” ….Quando vedi l’occhio, vedi qualcosa uscirne: vedi lo sguardo dell’occhio [16]“. L’uomo che emette sguardi e riceve immagini, poi dentro di sé mette in atto una rielaborazione delle più intime sensazioni estetiche (intese secondo l’etimo greco, cioè: percettive sensoriali); e diviene come una pianta che, nel processo della fotosintesi clorofilliana, assorbe anidride carbonica e la trasforma in ossigeno. Così l’uomo, dopo aver digerito e metabolizzato tutto un bagaglio di immagini e stimoli esterni – non solo visivi o sonori, ma anche olfattivi o psichici (dalla paura allo stupore) – li restituisce, attraverso l’intuizione spirituale, come opera d’arte.

 Nella lingua tedesca esiste un termine, Einfühlung, per indicare  questo immedesimarsi del sentimento con le forme naturali, a seguito di una profonda consonanza o simpatia (secondo l’accezione greca)  tra soggetto ed oggetto. In italiano viene reso con “simpatia simbolica” od “empatia”.  Se ne era già servito lo storico dell’arte Robert Vischer nella seconda metà dell’Ottocento; ma il termine deve la sua fortuna ad un noto saggio estetico, edito nel 1908, di Wilhelm Worringer: Abstraktion und Einfühlung [17] .

L’uomo primitivo, per dirla con il Tedesco, “si sente così smarrito e spiritualmente indifeso di fronte agli oggetti del mondo esterno…che egli prova così forte l’impulso a spogliare quei fenomeni del loro arbitrio e della loro oscurità  [18]“. Per Worringer “…l’arte origina da un’angoscia cosmica che si manifesta nella perenne contesa tra opposte tendenze: quella dell’empatia, del bisogno di impossessarsi delle specifiche realtà, raffigurandole; e quella mossa dall’istinto di liberarsi da un mondo episodico, oscuro e minaccioso per rifugiarsi in forme cristalline, assolute ed eterne, immuni da vicende caotiche [19].

arch. Renato Santoro – Roma, 1 gennaio 2016 

NOTE BIBLIOGRAFICHE

[1] L. Rocci, vocabolario Greco – italiano (v. sub vocibus), Dante Alighieri  e  S. Lapi s.p.a. coeditori, Città di Castello 1966

[2] Si confrontino le voci sanscrite taksati (=egli fabbrica) e tvaksati (=egli genera) v. Dizionario etimologico a cura di A.M. Parassiti, Gulliver libri, 1997, sub voce tecnico. Si consideri poi che, anche in italiano, concepire vale tanto per fecondare, quanto per pensare, immaginare, formare con la mente.

[3] Paul Pierret, Vocabulaire hiéroglyphique, Parigi, 1875, pag. 428; A. Gardiner, Egyptian gramamr, Londra, 1950, pag. 587.

[4] E’ curioso come in italiano l’organo femminile della riproduzione derivi dal latino uter, il cui significato è proprio quello di vaso.

[5]  M. Heidegger: Corpo e spazio (1964), ediz. il melangolo, Genova 2000, pag. 27.

[6]  M. Heidegger, op. cit. pag. 37.

[7] M. Heidegger: Vorträge und Aufsätze (1954), I, 11 riportato in U. Galimberti: Invito al pensiero di Heidegger, ediz. Mursia, Milano 1986, pag. 108.

[8]  M. Heidegger: Corpo e spazio, op. cit. pag. 35.

[9]  Per assonanza, il sostantivo facticius rimanda a ficticius (fittizio) che, però, deriva da fingo. Esiste un nesso tra “facimento” e “finzione” ?

[10]  In A. Hauser; Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 2001, vol. I a pag. 8 si legge: “…Le immagini facevano parte dell’apparato di questa magia; erano la “trappola” in cui la selvaggina doveva cadere, o piuttosto la trappola con l’animale già catturato”.

[11]  Platone, La Repubblica, X, 602.

[12]  Dal greco Δάκτυλοι,  cioè: dita

[13] v. Naturalis Historia, libro XXXV.  Ibidem  Plinio  (ben sapendo che, come Roma era in debito culturale nei confronti della Grecia, quest’ultima – a sua volta – altrettanto lo era  nei confronti dell’Egitto) narra come fosse stato l’ egizio Filocle ad insegnare ai greci l’arte pittorica.

[14] “Primis in orbe deos fecit timor, ardua coelo / fulmina cum caderent”,  riportato in A. Donini, Breve storia delle religioni, Ediz. Newton, Roma 1993, pag. 13

[15]  L. Feuerbach, L’essenza della religione (1845), Ediz. Newton, Roma 1994, pagg. 46-47.

[16]  L. Wittgenstein: Osservazioni sulla filosofia della psicologia (1946/49),  Adelphi, Milano 1990, pag. 306-307.

[17]  W. Worringer: Astrazione ed empatia, Einaudi, Torino, 1975.

[18]   W. Worringer, Astrazione e empatia, op. cit. pag. 38-39

[19]  Citazione di W. Worringer riportata in B. Zevi, Architettura, concetti di una controstoria, ediz. Newton Compton, Roma 1994, pagg. 30 e 31.

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