I segreti dell’alcova nell’Antico Egitto

Kατὰ τὰ ἐπιτηδεύματα γῆς Αἰγύπτου ἐν ᾗ κατῳκήσατε ἐπ’ αὐτῇ οὐ ποιήσετε καὶ κατὰ τὰ ἐπιτηδεύματα γῆς Χανααν εἰς ἣν ἐγὼ εἰσάγω ὑμᾶς ἐκεῖ οὐ ποιήσετε καὶ τοῖς νομίμοις αὐτῶν οὐ πορεύσεσθε. 

Kαὶ μετὰ ἄρσενος οὐ κοιμηθήσῃ κοίτην γυναικός βδέλυγμα γάρ ἐστιν.

Non farete quello che si fa nel paese d’Egitto dove avete abitato, né quello che si fa nel paese di Canaan dove io vi conduco, e non seguirete i loro costumi.

Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole.*

* Bibbia, Antico Testamento, Levitico 18, 3; 18, 22. Testo a cura della Conferenza Episcopale Italiana, nella traduzione rivista a fronte dei testi originali (ebraico, aramaico, greco), 2008

La cultura ebraica paleotestamentaria, permeata di quel moralismo integralista proprio di comunità pastorali chiuse e conservatrici, refrattarie a scambi con popolazioni contigue, aveva sempre apertamente manifestato avversione nei confronti dell’evoluta e raffinata civiltà egizia. Al punto di dipingerla come portatrice di ogni sorta di nefandezza, dissoluta e amorale, come in questo passo del Levitico. Tra maschi (ma non solo) quando si vuole denigrare l’avversario la dinamica psicologica più ovvia è quella di mettere in dubbio la sua identità sessuale e dileggiarne le prestazioni sotto le lenzuola. L’omofobia è antica quanto l’uomo.

In realtà il popolo egiziano era depositario di una sapienza religiosa, filosofica, artistica, culturale senza pari nel Mondo Antico, al cui cospetto le genti circonvicine impallidivano e nei confronti dell’Egitto dei faraoni tutte le civiltà del Mediterraneo sono in qualche modo debitrici. Compreso il popolo d’Israele, il cui massimo profeta Mosè si era formato all’ombra delle piramidi.

Se poi in riva al Nilo, nel segreto dell’alcova, sotto il profilo erotico c’era chi non disdegnasse variazioni sul tema, ai nostri giorni – oggi come allora – non tutti sono propensi a bollare come abominio qualche piccante divagazione notturna. A quanto pare anch’essa primordiale quanto l’uomo stesso; anzi, ancora più antica, giacché praticata persino dagli stessi dei.

Sessualmente il pantheon egizio non sembra particolarmente pruriginoso: basti pensare ad Atum che nel racconto cosmogonico con il suo seme dà origine all’universo masturbandosi. O ad Osiride, fatto a pezzi dal fratello Seth, il cui pene viene gettato nel fiume e ingoiato da un pesce. Provvidenzialmente viene recuperato dalla sua sposa e sorella Iside, che grazie a questo ritrovamento potrà accoppiarsi con lui per generare Horus. In questi miti nessun risvolto di malizia o di biasimo, ma la levità della naturalezza. C’è poi la divinità itifallica Min – la cui iconografia lo vuole in evidente stato erettile di eccitazione – e come tale preposto alla fertilità.

Homo sum et nihil humani a me alienum puto, come sentenziava Terenzio.

Ma è da Londra che il Papiro n. I della collezione Chester Beatty – di provenienza tebana e scritto in caratteri ieratici, di età Ramesside e risalente alla XX dinastia – ci ha restituito il sapido e astuto episodio della disputa fra Seth ed Horus. Zio e nipote, rispettivamente sovrani dell’Alto e Basso Egitto, simboleggiati dalle piante di loto e di papiro, erano fra loro in contesa per sancire il predominio dell’uno sull’altro con l’intenzione di unificare i due regni e le due corone.

trono di Lisht

Raffigurazione di Horus e Seth che intrecciano le due piante di papiro e di loto. Particolare dal laterale del trono di pietra di una statua di Sanusret I (Sesostri I) rinvenuta a El Lisht e conservata al Museo del Cairo (XII dinastia, Medio Regno)

Lo scaltro Seth invita Horus a giacere presso di sé e nottetempo finisce con il congiungersi al giovane dio, che però, previdente, riesce a raccoglierne il seme nella mano, curvata a mo’ di coppa in mezzo alle gambe. Grazie all’intervento della madre Iside, che gli taglia l’arto e lo getta nel Nilo (salvo poi farglielo magicamente ricrescere), Horus complotta con lei la propria vendetta ed eiacula sulla lattuga dell’orto di Seth, insalata di cui il dio è notoriamente ghiotto. In questo modo, a sua insaputa, Seth assume, insieme alla verdura, lo sperma del nipote.

Seth, che già pregusta la vittoria, convinto di avere con il suo abuso carnale umiliato il nipote, convoca il tribunale dell’Enneade per dimostrare agli dei dell’olimpo egizio che, in virtù della propria supremazia sessuale sul rivale, meritava la doppia corona. Ordina perciò al suo seme si uscire dal corpo di Horus ma inutilmente perché era finito nel fiume. A questo punto è Horus che, al cospetto di Iside esultante, può assaporare la sua rivincita: ordina al suo seme di uscire dal corpo dello zio e, fra lo stupefatto sgomento del vecchio dio e lo scherno dei giurati, da Seth fuoriesce lo sperma di Horus, ingerito con le foglie di lattuga.

Con questo colpo di scena finale il racconto del papiro Chester Beatty si chiude con il trionfo di Horus e con la sua proclamazione a sovrano dell’Alto e del Basso Egitto**.

** A. H. Gardiner, The Library of A. Chester Beatty. Description of a Hieratic Papyrus with a Mythological Story, Love Songs and Other Miscellaneous Texts, The Chester Beatty Papyri, No. I, The Oxford University Press, London 1931, Chapter II, The Contendiings of Horus and Seth, pp. 8-26

Il racconto dell’amplesso fra Seth ed Horus, prima del Chester, era già noto in forma frammentaria da un papiro rinvenuto nella regione del Fayyum dal Petrie, che il filologo Francis Llewellyn Griffith aveva dato alle stampe a fine Ottocento***. Stante la scabrosità dell’episodio, che la puritana Inghilterra vittoriana avrebbe mal digerito, il Francis evitò di censurare la narrazione ma ricorse all’espediente di pubblicare il testo nella versione latina. In tal modo solo una fascia ristretta di lettori anglofoni ne avrebbe compreso il senso; e la moralità era salvaguardata. Gli apprezzamenti di Seth nei confronti del nipote diventano così: “Bis pulchrae sunt nates tuae” (che per gli Italiani non è difficile tradurre: doppiamente belli son i tuoi glutei).

*** F. Ll. Griffith, The Petrie Papyri. Hieratic Papyri from Karun and Gurob, Bernard Quaritch, London 1898, v. 1, p. 4

Da questo apologo si deduce che la società del tempo non si scandalizzava più di tanto se al riparo di una camera da letto potevano intrecciarsi abbracci non ortodossi. Si deduce anche però che per la morale di allora, come tutto sommato per quella odierna, l’onore era salvo quando l’uomo aveva parte attiva. Come poi in Grecia e a Roma, anche in Egitto era disdicevole per il maschio non l’atto omosessuale in sé quanto l’assumere, per una sorta di omofobica misoginia, il ruolo passivo equiparato a quello della sottomissione femminile.

Anche se è pur vero che nel Mondo Antico l’Egitto rappresenta uno dei pochissimi casi in cui la figura della donna, sia sotto il profilo religioso che in ambito sociale, non appaia discriminata, almeno non tanto quanto accade presso gli altri popoli. Le divinità femminili hanno un’influenza cultuale non inferiore a quella delle divinità maschili; le sacerdotesse hanno accesso al sacro e sul trono non sono poche le regine che hanno esercitato un potere incontrastato, equiparabile a quello dei consorti (da Nitokris ad Hatshepsut, da Nefertiti a Tauosre per citare le più note).

Ma torniamo alle nostre storie: se la trasgressione era permessa agli dei per quale motivo a questi costumi libertini non potevano conformarsi anche i mortali? A maggior ragione se si trattava nientemeno che di un faraone.

pepi II Met NY

Frammento di testa ritenuta di Pepi II, conservata al Metropolitan Museum di New York (VI dinastia, Antico Regno)

Sono note le voci che circolavano attorno a Neferkara Pepi II, sovrano dell’Antico Regno, sul trono fra il 2279 e il 2219 a.C. al tempo della VI dinastia (datazione J. von Beckerhat). Sebbene nel corso del suo lunghissimo regno abbia avuto un numero di mogli di tutto rispetto, le quali gli assicurarono uno stuolo di eredi, si narra che non fosse insensibile al fascino maschile. A svelare le inclinazioni eterodosse del re egizio – il cui nome significa “Bello è il ka di Ra” – è un racconto intitolato Re Neferkara e il generale Sisene di cui si ha traccia in alcuni frammenti di papiro – come quello conservato al Louvre noto come Chassinat I – di collocazione temporale incerta, forse del Nuovo Regno o forse trascrizione di un testo più antico****.

**** G. Posener, Le conte de Néferkarê et du général Siséné, (Recherches Littéraires VI) in “Revue d’Égyptologie” 11, Cairo 1957, pp. 119-137

Probabilmente dettato dall’intenzione di screditare le mollezze cui poteva cedere un regnante, vi si allude agli incontri notturni che si svolgevano clandestinamente fra Neferkara (alias Pepi II) e il suo comandante delle guardie (Sasenet nella traslitterazione egizia). Maliziosamente, nella circospezione delle lunghe ore trascorse fra i due in attesa dell’alba e del furtivo ritorno a palazzo del sovrano, alcuni egittologi hanno voluto scorgervi i presupposti per una malcelata relazione omosessuale (F. Cimmino, Dizionario delle dinastie faraoniche, Bompiani, Milano 2003, p. 112). Nonostante le precauzioni prese dai due amanti, il faraone viene pedinato dal sospettoso cortigiano Teti che, spiatene le mosse, non saprà tenere per sé l’invitante pettegolezzo. Alle prodezze extraconiugali di Neferkara dedicherà un articolo anche l’eminente studioso francese Pierre Montet (P. Montet, Le Pharaon et le Général. Conte, in “Revue de l’histoire des religions”, tomo 152, n. 1, anno 1957, pp. 1-7).

Quando nel 1964 l’egittologo Ahmed Soussa scoprì nella necropoli di Saqqara il sepolcro a mastaba di Khnumhotep e Niankhkhnum rimase vivamente colpito dall’insolito ciclo iconografico che decorava le pareti. I due personaggi che riposavano per l’eternità in quella tomba risalente alla V dinastia (seconda metà del XXV sec. a. C.) erano raffigurati in un atteggiamento di confidenziale intimità quale si era soliti riservare alle coppie coniugali. Posti vicinissimi uno di fronte all’altro e legati in un amorevole abbraccio, quasi in procinto di baciarsi, fecero subito pensare ad un legame sentimentale esistente in vita fra i due. Entrambi furono al servizio dei faraoni Niuserra-Ini e Menkauhor come supervisori degli addetti alla cura delle preziose mani reali.

khnumhotep

Khnumhotep e Niankhkhnum, mastaba di Saqqara, V dinastia (Antico Regno)

Nella loro onomastica ambedue sono accomunati dalla devozione – forse di famiglia – al dio Khnum, il potente dio dalla testa di ariete. Per questo motivo c’è stato qualche studioso che, rifiutandosi di vedere in essi gli antesignani di quelle che saranno le unioni civili dei nostri tempi, ha ipotizzato trattarsi di due fratelli – o comunque congiunti – i quali hanno voluto intraprendere insieme il viaggio sulla barca solare verso l’oriente eterno.

Per chiudere questo excursus non possiamo non menzionare “il faraone eretico” della XVIII dinastia, quell’Amenofi IV che alla metà del XIV sec. a. C. si convertirà al culto solare e monoteista di Aton scegliendo per sé il nome di Akhenaton, vale a dire “alla Gloria di Aton”. La ritrattistica amarniana – la cui estetica registra un cambio di passo ed una riconoscibile discontinuità con la tradizione formale dell’arte egizia – ci mostra un uomo dalla corporatura disarmonica: testa allungata, spalle strette, fianchi e cosce larghi, ventre prominente, mammelle adipose. Si tratta di un realismo fortemente stilizzato e il sovrano rappresentato ha tutte le caratteristiche di una fisicità più femminile che maschile. Anche l’affettuosità e la tenerezza dei suoi atteggiamenti verso sposa e figlie, questa quotidianità di gesti, sono inconsuete rispetto ai moduli canonici della figuratività regia. Per questo si è voluto vedere in Akhenaton, con tutte le imperfezioni della persona e con l’effeminatezza dei modi, le peculiarità dell’androginia, come se l’adoratore del dio unico volesse compendiare in sé entrambi i principi di una duplice sessualità.

Certo non si può parlare di ermafroditismo, ma indubbiamente sono riconoscibili nel faraone delle ambiguità di genere.

ekhnaton cairo

Statua di Akhenaton in arenaria (Età amarniana, metà del XIV sec. A. C.), Museo del Cairo

alabastro Petrie Museum Londra

Lastra di alabastro raffigurante Akhenaton, età amarniana, Museo Petrie, Londra

ekhnaton mortimer

La popolarità raggiunta da Akhenaton nell’immaginario collettivo ha influenzato persino il mondo dei fumetti. Qui il faraone eretico è al centro delle avventure di Philip Mortimer in Il mistero della grande piramide del belga Edgar P. Jacobs (1950) 

stele di smenkhara e akhenaton

Stele di Smenkhara e Akhenaton, da Amarna, Museo di Arte Egizia di Berlino. L’identificazione è controversa, anche se indubbiamente si tratta di due uomini. Ma c’è chi azzarda trattarsi di Akhenaton e della stessa Nefertiti (in co-reggenza e in vesti maschili)

L’età amarniana ha contorni piuttosto fumosi, dal momento che, con la morte di Akhenaton ed il ritorno della capitale a Tebe, la restaurazione degli antichi culti comportò fra i sovrani a seguire una damnatio memoriae di quel periodo, vissuto come uno strappo dai sacerdoti di Amon. Pertanto si ha confusione dei ruoli, delle successioni al trono e delle parentele. Ad esempio, quando furono trovate delle stele di Akhenaton in pose intime con il co-reggente Smenkhara – erano gli anni ’70 del secolo scorso – ci fu spazio per alcune perplessità sulla natura di quegli abbracci e ci fu chi ipotizzò un legame di natura omofila. In realtà non si sa con certezza se fossero consanguinei, forse fratellastri o addirittura padre-figlio, o se Smenkhara fosse genero di Akenaton, avendone sposato la figlia.

Roma, 6 settembre 2019 

IN COPERTINA

1879 giocatori di scacchi

Sir Lawrence Alma Tadema, Giocatori di scacchi in Egitto, olio su tela, 1879

PER I CENNI BIOGRAFICI DEI FARAONI CITATI 

F. Cimmino, Dizionario delle dinastie faraoniche, Bompiani, Milano 2003, sub vocibus: Niuserra-Ini, pp. 94-96; Menkauhor, pp. 96-97; Pepi II, pp. 110-112; Amenhotep IV, pp. 261-266

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