In un quartiere periferico del Cairo, l’odierna capitale egiziana che nell’antichità greco-romana era denominata Heliopolis in onore di Horus la divinità solare qui adorata come Ra-Harakhte, sono stati rinvenuti frammenti di una colossale statua che in un primo momento, sull’onda dell’entusiasmo per la scoperta, gli egittologi avevano attribuito a Ramesse II, il grande faraone della XIX dinastia. Ne aveva dato notizia il quotidiano Al Ahram ed il 9 marzo era subito rimbalzata sulle agenzie di mezzo mondo.
Il nome del grande faraone faceva certo scalpore e calamitava l’attenzione mediatica. L’ipotesi era stata supportata dal fatto che ad Eliopolis esisteva un complesso sacro risalente a quel sovrano del Nuovo Regno.
Il luogo corrispondeva a questo popolarissimo sobborgo di Al-Matariya – ai margini della sterminata estensione del Grande Cairo – dove i resti sono riemersi alla luce. Il nome egizio della città eliopolitana (sulla quale si impianterà la città medievale e poi quella moderna) era Iunet Mehet cioè Pilastro del Nord. La campagna di scavo è stata condotta congiuntamente da studiosi egiziani e tedeschi, tra i festeggiamenti tronfi della popolazione del quartiere.
A dire il vero, giudicando dalle foto e dai filmati diffusi, la metodologia di prospezione e le modalità di sterro sembrano piuttosto rudimentali e poco ortodosse, lontane comunque dai protocolli internazionali. Il responsabile egiziano della missione, Mahmoud Afifi, ha comunque rassicurato che le indagini proseguiranno con maggiore cautela.
Stando alle proporzioni dei giganteschi frammenti di busto e testa si ricostruisce che la statua dovesse essere alta qualcosa come sette-otto metri. Ad avvalorare l’attribuzione d’identità al mitico Ramesse era stato il discusso egittologo Zahi Hawass, così incline al protagonismo mediatico al punto che da alcuni detrattori è stato soprannominato l’Indiana Jones delle piramidi. Come l’eroe dello schermo portato al successo da Harrison Ford, il Nostro non si separa mai dal suo caratteristico cappello a larghe tese, da cercatore d’oro.
IN ALTO: presentazione alla stampa dei reperti collocati nei giardini del Museo Archeologico Nazionale del Cairo (tra la folla di autorità, giornalisti e curiosi)
A distanza di una settimana la smentita. La precisazione è avvenuta durante una conferenza-stampa tenuta dal ministro egiziano delle Antichità, Khaled El-Enany, con il sostegno del direttore degli scavi, il tedesco Dietrich Raue, dell’Università di Lipsia. La datazione è stata ridimensionata e il faraone è così “ringiovanito” di ben seicento anni. Sembra infatti quasi certo – salvo ulteriori contrordini del mondo accademico – che si tratti di Psammetico I, regnante della XXVI dinastia, che fu sul trono per quasi mezzo secolo e morì nel 610 a.C. Siamo dunque nel periodo di declino della civiltà faraonica, caratterizzata da turbolenze e disordini, con l’incombenza delle invasioni straniere (dapprima gli Assiri, poi verranno i Persiani, infine sarà la volta dei Macedoni).
IN ALTO: Psammetico I raffigurato come offerente a Ra-Harakhte (rilievo parietale nella tomba del nobile Pabasa presso Deir el-Bahari)
IN ALTO: bronzetto di Psammetico I rappresentato come Osiride (Berlino, Museo Egizio)
Il nome con cui conosciamo questo re è mutuato dal greco Psammetichos, secondo la traslitterazione che ne fece lo storico alessandrino Manetone dal cartiglio egizio Psametek, il cui significato non è ben definito (potrebbe anche trattarsi di derivazione onomastica assira).
Alla morte del padre Necao I, Psammetico fu dapprima confinato in Assiria, e da qui rinviato in Egitto per occupare il trono paterno (664 a.C.?). A lui si deve la riunificazione dell’Alto e del Basso Egitto e l’affrancazione dalle ingerenze assire (alla metà del VII sec. a.C.). Capitale della nuova dinastia fu dichiarata Menfi che tornò ad avere la supremazia su Tebe; ed anche in campo religioso la teogonia menfita riconquistò la sua centralità. Ma la corte della XXVI dinastia continuò a gravitare attorno alla città di Sais, sul Delta, da cui il casato era originario.
Il lungo regno di Psammetico, durante il quale il sovrano riformò il Paese e potenziò la difesa delle frontiere, fu un periodo di rinnovamento non di meno in ambito artistico, con la riaffermazione delle tendenze estetiche della Tradizione, tipiche del Nuovo Regno. E’ il periodo in cui i caratteri demotici cominciano ad essere usati anche nella scrittura letteraria. Sotto il suo scettro il commercio vide un stagione di fiorente sviluppo grazie alla presenza di mercanti Fenici e Greci. Questi ultimi ottennero addirittura il permesso di fondare una loro città, Naucrati, sul Delta del Nilo. Alla sua morte la corona passò al figlio Necao II. L’apice raggiunto dalle arti plastiche ai tempi di questa dinastia coincide con il regno di Amasi II ed è conosciuto come “rinascimento saitico” proprio perché Sais ne era l’epicentro.
IN ALTO: Amasis II (Berlino, Museo Egizio) sfoggia il sorriso caratterizzante la statuaria saitica
Assieme agli’enormi frammenti di busto e testa in quarzite è stata trovata un’altra statua in calcare alta 80 centimetri, a dimensioni naturali; dalla lettura del cartiglio inciso è stato individuato trattarsi di Sethi II (che di Ramesse II era nipote). I reperti sono stati temporaneamente trasferiti nei giardini del Museo Archeologico Nazionale del Cairo, in attesa d una futura collocazione nel Museo di Giza.
Certo il clamore sarebbe stato maggiore e più ampia la divulgazione promozionale che sarebbe derivata a favore sia dell’Egitto – che punta su attrazioni in grado di rivitalizzare il turismo – sia della stessa spedizione archeologica, qualora si fosse trattato veramente di Ramesse, grazie alla popolarità del suo appeal sul grande pubblico. Il lungo regno di Ramesse II, tra i più duraturi della cronologia egizia, si protrasse dal 1279 al 1213 a.C. e caratterizza poco meno di settanta anni di storia del Nuovo Regno, durante i quali il faraone si distinse sia in campo militare che nella promozione dell’architettura. Non si può non ricordare la sua vittoria sugli Ittiti a Quadesh come non è possibile tacere dei molti templi da lui innalzati in tutto il Paese, sino a quello rupestre di Abu Simbel o delle città di sua fondazione come Pi-Ramses. Delle sue numerose spose la più ammirata resta Nefertari, ritratta in tutta la sua eleganza negli splendidi affreschi della sua tomba nella Valle delle Regine.
Le fattezze di Ramesse ci sono note, grazie all’infinità di ritratti pervenuti sino a noi, uno per tutti quello bellissimo conservato al Museo Egizio di Torino. Il “faraone trionfante”, come ci è familiare Ramesse II, visse ben novanta anni (1304-1213 a.C.), un’età di tutto rispetto ancora oggi, a maggior ragione a quei tempi. Alla sua morte la doppia corona dell’Alto e del Basso Egitto fu posta sul capo di Merenptah, il tredicesimo dei suoi figli, che salì al trono in età già avanzata e regnò meno di un decennio (sino al 1204 a.C.). Anche il regno di Sethi II, figlio di Merenptah, fu di breve durata (dal 1203 al 1194 a.C.). Di quest’ultimo il Museo torinese possiede una splendida testimonianza glittica.
IN ALTO: immagini del ritrovamento nel distretto di Al-Matariya (Cairo)
IN ALTO: frammento di Sethi II rinvenuto ad Al-Matariya (Cairo)
Bambini alla periferia della Capitale egiziana posano soddisfatti per una foto-ricordo davanti al prezioso reperto
Museo Egizio di Torino, statua di Ramesse II
Nefertari, Valle delle Regine (Alto Egitto)
Museo Egizio di Torino, statua di Sethi II
Roma, marzo 2017
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