Numero Zero: il Matto

Ventidue sono le lame dei Tarocchi, ma di esse solo ventuno numerate e in successione numerica. Una, il Matto, contraddistinta dallo zero, viene prima dell’uno e dopo la ventunesima. Lo zero è una cifra che ai Greci non era ben chiara sotto il profilo matematico-algebrico. Lo zero può essere il nulla, il grande vuoto, il caos da cui viene generato l’ordine (Ordo ab chao è un motto familiare a molti). Il Novecento, la cultura europea del Novecento è stata notevolmente sedotta dal fascino del Niente.

MATTO

Il Nichilismo, da Nietzsche ad Heidegger, ha dei risvolti filosofici tali da non potersi liquidare semplicisticamente come negazione del mondo, concetto che tanto sgomentava i Greci. Dal non essere scaturisce l’essere. E’ un assunto che evoca quasi il Tao, il libro della via dell’essere dei sapienti d’Oriente. Un’astrazione mentale questa che porta all’elogio del non movimento. Lo zero diviene un momento d’inerzia assoluto, il punto O, origine dell’azione, che potrà svolgersi lungo l’asse del positivo o quello del negativo. Da zero si scorre verso +1 o verso -1, verso il bene o verso il male, verso la luce o verso il buio. Il taoismo lo paragona al fulcro della ruota, al mozzo, che è punto fermo ma genera il movimento. E’ il motore primo nel calcolo combinatorio delle molteplici possibilità dell’Essere (di cui parla Guenon).

Pitagora parte dall’Uno perché il sentire greco rifuggiva dallo zero: “Tutto è, niente non è“, affermava Parmenide. Ma quando la matematica occidentale accoglie da oriente lo zero, el azifr degli Arabi (da cui appunto l’italiano cifra), l’origine, il centro degli assi cartesiani slitta, si attesta sullo zero, che in una rappresentazione simbolica dell’essere, equivale all’Uno pitagorico. Essere, non essere è il dubbio esistenziale di Amleto che si interroga sulla condizione dell’Uomo.  La scuola degli Umanisti contemporanei continua ad interrogarsi del perché del mondo.

Il venir ad essere dell’essere altro non è che esistere. Il divino che diviene mondo si rispecchia in questa mondità, un creato che è partecipe – in ogni sua creatura: dalla pietra alla pianta, dall’animale all’uomo – della divinità; che riverbera, per dirla con Giordano Bruno, la sacra scintilla generatrice dell’Ente Supremo. Magari ci sarà necessaria una dose di donchisciottesca bizzarria del Matto per andare controcorrente nel nostro percorso sino alle sorgenti del Sé.

Un aforisma dello spagnolo De Rojas, ebreo convertito e in dimestichezza con la Cabalah, recita: “II primo passo verso la follia è il credersi saggi“.

Ma osserviamola meglio l’iconografia di questo Arcano Maggiore.

Il Matto, cioè il  viandante con tanto di sacco in spalla, assimilabile al consultante in cerca di se stesso, è vestito in modo bizzarro e colorato, come un giullare che mette in discussione l’ordine costituito e l’autorità, un Rigoletto che irride il suo Duca, facendo tintinnare i sonagli del suo berretto. L’abito multicolore è rappresentazione della molteplicità del mondo e delle diversità che esistono fra gli uomini. Una bestia gli azzanna il polpaccio, a significare che il viaggio è disseminato di ostacoli e pericoli. Anziché guardare la strada, il Matto se ne sta a capo in su, con lo sguardo rivolto verso l’alto. Ha la testa fra le nuvole e non sa dove mette i piedi? Oppure segue la via indicatagli dalla stella polare e anziché curarsi dell’immanente se ne sta in contatto con il trascendente?

Questo suo essere “non-numero” è equiparabile ad un non-luogo e, soprattutto, ad un non-tempo. Non esistono più i parametri prima/dopo, sotto/sopra, largo/stretto, zenit/nadir: più che al flusso metastorico dell’Ouroboros o all’eterno ritorno dell’uguale, il grado zero del Matto è assai più simile a quella che Nietzsche chiama “la porta carraia”, cioè il varco che si crea fortuitamente e mette in comunicazione sincronica dimensioni spazio-temporali differenti fra loro, facendo sì che esse diventino improvvisamente coassiali.

arch. Renato Santoro – 29 maggio 2016

 

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