Giorgio de Chirico, era a Parigi nel 1912 e conversando con l‘architetto greco Dimitris Pikionis[1], che era stato suo compagno di Politecnico negli anni ateniesi, gli confidò come egli sentisse il latino come “la lingua che può esprimere meglio tutti questi misteri…. E così pure l’architettura romana. Roma è il luogo di questi misteri” .
C’è un’espressione latina – Genius Loci – che ben definisce questo confluire di energie capaci di caricare, positivamente (ma talora anche negativamente) un determinato sito. Nel mondo antico, quando il contatto con l’ambiente, con lo scorrere del tempo, con suoni o silenzi della natura, obbediva a regole percettive di maggiore concentrazione, si avvertiva in maniera più accentuata il rapporto fra uomo e spazio psico-fisico circostante.
Lo stesso linguaggio era improntato ad una sottigliezza, ad una complessità più sfaccettata rispetto alla semplificazione e alla grossolanità della lingua contemporanea, che tende all’impoverimento di sintassi, vocabolario, pronuncia. Un pensare complesso comporta un linguaggio complesso. Basti considerare la dovizia della lingua greca basata sul ternario: la declinazione contempla i generi maschile, femminile, neutro; i casi singolare, duale, plurale; i modi verbali, riferiti al tempo passato: perfetto, aoristo, piuccheperfetto. La stessa pronuncia delle vocali prevedeva le brevi e le lunghe (per le lettere epsilon ed eta, per le lettere omicron e omega, per le lettera iota e ipsilon, con tanto di diversificata simbologia grafica), perché evidentemente si confidava su una maggiore attenzione e applicazione all’ascolto.
Altrimenti non si sarebbe potuto intendere lo stormire delle foglie attraverso cui interpretare il responso della divinità.
A Dodona, un luogo oracolare consacrato a Zeus, esisteva una vecchia quercia fronzuta che veniva interrogata dal pellegrino ansioso di conoscere il proprio destino. Il sacerdote/veggente aveva il dono di un orecchio finissimo che poteva cogliere il “sottotesto” dettato dal vento nell’agitare quei rami. Nell’arte della divinazione, Dodona (situata in Epiro nella catena montuosa del Pindo, non lontano dall’odierna Ioannina) è anche più antica rispetto all’altro caposaldo della mantica greca: Delfi. Lo racconta Erodoto che raccoglie le sue informazioni da fonti egizie. Nel viaggio di formazione in Egitto, cioè alle radici della cultura sapienziale, gli viene raccontato che due grandi sacerdotesse, rapite da predoni fenici, erano state vendute una alle porte del deserto libico e qui nacque l’oracolo di Amon a Siwa[2]; l’altra in Grecia proprio a Dodona dove sorse il santuario dedicato al culto del padre degli dei dell’Olimpo (Erodoto, Storie, Libro II, 54-57).
DODONA (Epiro), quercia sacra di Zeus
La risposta degli ateniesi alla devozione preellenica epirota fu Delfi https://archipendolo.wordpress.com/2015/07/25/delfi-ombelico-del-mondo/ ombelico del mondo classico, dove le esalazioni sulfuree provenienti dalla grotta in cui il mito vuole che Apollo uccise il drago Pithon, esaltavano lo stato di trance della Sibilla che qui aveva il proprio antro divinatorio.
In Beozia, a Lebadeia, terzo polo della mantica greca, è la grotta di Trofonio. Una leggenda ripresa da Pausania racconta che l’architetto del tempio d’Apolllo a Delfi (costruito assieme al fratello Agamede), reo di aver sottratto dalla stanza segreta del tesoro gli ori del re di quella regione, fu punito dal Dio e inghiottito dalla terra. Nel luogo in cui era sprofondato ebbe origine il culto del divinizzato Trofonio (assimilato a Zeus); e tradizione vuole che quanti ne ascoltassero il vaticino nella grotta perdevano per sempre il sorriso.
ANTRO DI TROFONIO, incisione del fiammingo Romeyn de Hooghe (1687)
Nell’isola di Creta, al centro della catena montuosa degli Psiloriti e ai piedi dell’Ida, molto forti sono le energie che si sprigionano dalla cosiddetta “Grotta dell’Iniziato”, tuttora ben percepibili dagli sporadici visitatori di quella landa solitaria. L’Antro Ideo si trova a margine di una piana a mille metri sul livello del mare. Qui Pitagora, il sapiente di Samo – come raccontano Porfirio e Giamblico – si trattenne in religioso ritiro spirituale per un intero mese, senza toccare cibo ed acqua, raggiungendo così quella che gli Indiani chiamano illuminazione. Sembra che anche i sovrani cretesi di quell’antica civiltà mediterranea fossero soliti praticare questa usanza per affinare le proprie attitudini. Era la grotta dove Zeus era stato nascosto per non essere divorato dal padre Crono e dove fu allevato dalla capra Amaltea; dove la confraternita sacerdotale dei Dattili Idei, per camuffare gli alti vagiti del divino lattante, forgiavano con grande fragore i loro scudi di bronzo.
Creta, Monti Psiloriti, l’Antro Ideo
Al centro delle Isole Cicladi, troneggia l’isola di Delo dove venne al mondo Apollo, divinità solare dell’Olimpo greco (Febo, appellativo del dio è sinonimo di Fos=luce). In quest’isola dove si era avuto una nascita tanto luminosa, era vietato morire. Al momento del trapasso i suoi abitanti venivano condotti nell’antistante isola Renea. Nel visitare queste due piccole isole si percepisce un acuto sentore: di luce e di buio, di oriente e occidente, di vita e di morte, di gioia e di pianto.
I romani usavano il vocabolo numen come corrispettivo del greco daimon, cioè lo spirito divino che anima e permea persone, luoghi, oggetti. Tant’è che con il tempo assunse il senso sinonimo di divinità tout-court.
Significativo il fatto che il secondo re della Roma delle origini, Numa, tradizionalmente discepolo di Pitagora di Samo, nell’etimo onomastico riverbera quell’aura di ieraticità iniziatica, conclamata dalle frequentazioni esoteriche con la Ninfa Egeria. La storiografia latina gli attribuisce l’istituzione delle prime norme religiose, del culto di Vesta, delle cariche pontificali. Era solito recarsi nella grotta Egeria, nella verdeggiante campagna oltre Porta Capena, ai lati dell’Appia Antica, per consultarne gli auspici. Ovidio racconta addirittura di una ierogamia fra l’illuminato sovrano e la ninfa; racconta anche che alla morte di Numa Pompilio dalle lacrime della ninfa scaturì una sorgente per consacrare quel luogo mistico.
Claude Lorrain, La ninfa Egeria nel bosco delle Camene (1669), particolare
Che il Lazio, come sottolinea de Chirico, sia terra di antichi miti e misteri è confermato dalle sue origini leggendarie che affondano nella notte dei tempi. Qui si rifugiò Saturno, corrispettivo latino di Crono, spodestato dal figlio Giove, accolto dall’italico Giano. Il Lazio è la Saturnia Tellus della rimpianta età dell’oro, dove trovare nascondimento (Latius ha infatti assonanze con il verbo Latere che significa “celarsi”).
Il sito in cui sorgerà Roma è carico di rimandi al mito e i toponimi ne svelano le radici. Gianicolo: il colle di Giano, l’ambigua divinità italica bifronte, con una faccia rivolta al passato e l’altra al futuro, ianua (porta, transito) tra il visibile e l’invisibile. Vaticano: il colle dei vaticini degli aruspici etruschi che per millenni sarà sede dei romani pontefici. Aventino: il colle degli Aves dove Remo osserverà, alla maniera degli Augures d’Etruria, il volo degli uccelli per trarre pronostici sulla fondazione della città.
E proprio negli anfratti dell’Aventino si nascondeva Caco, brigante dagli occhi di fuoco che terrorizzava i viandanti ma che ebbe la sventura di rubare ad Ercole una mandria di buoi, suscitandone l’ira ferale.
Il Genius Loci nella visione sacrale dei Romani rappresenta una entità soprannaturale che vivifica un luogo e lo anima, gli dà vis, potenza interiore.
Nemus, che in latino vuol dire genericamente bosco, nello specifico geografico dei Colli Albani diventa Nemi (fitta selva per antonomasia) e acquisisce il senso del sacro legato ad un ambiente popolato da oscure, inquietanti presenze daimoniache legate al culto di Diana cacciatrice, di cui il lago si fa specchio.
Enrico Coleman, Speculum Dianae (1909)
Il ramo d’oro di Frazer (1890) narra per l’appunto del re/sacerdote/mago che sulle sponde di questo bellissimo lago vulcanico laziale era a guardia dell’arbusto sacro alla Dea, dalle foglie così preziose. L’aura di magia che pervade Nemi si è protratta nei secoli ed ancor oggi si vocifera di arcani riti che là sembra si consumino. Per non parlare dello “strano” fenomeno della strada che porta a Monte Cavo, antica via che conduceva al Mons Albanus sacro a Jupiter Latialis. Fenomeno ottico, magnetismo vulcanico, “genio tellurico”? L’arteria si presenta inequivocabilmente in pendenza eppure una vettura, lasciata in folle in quel tratto (o una palla), anziché muoversi (o rotolare) in direzione della discesa si muove nel verso della salita. E’ questo una curiosità ben nota ai romani che immancabilmente vi si recano per constatare de visu l’enigma.
Gli elementi naturali, ma anche i concetti astratti sono percorsi da un proprio genius personificante, abbiamo così Tellus (la terra), Giove (il cielo), Bellona (la guerra) e il suo sposo Mavors (la virilità guerriera), Vesta (il fuoco), Giano (il passaggio), ai quali i devoti Romani erano soliti presentare offerte rituali (serti floreali, vino, focacce). Del resto Do ut des non era un utilitaristico monito latino?
“Nullus locus sine genio” scrive Servio, un retore commentatore virgiliano del IV-V secolo. Accade perciò che in città sia rappresentato anche il Genius Coeli Montis – o Monte del Cielo – che a Roma altro non è che il colle Celimontano, il quartiere a sud del Colosseo. La sua raffigurazione è quella di un uomo con la barba accanto ad una pianta di alloro. Così come ad Ostia Antica troviamo il cippo al Genius Coloniae Ostiensis, come a dire (parafrasando il fortunato romanzo): “ogni cosa è illuminata”.
Guercino, Et in Arcadia ego (1620c.)
L’Arcadia è una sub-regione del Peloponneso, fertile e incontaminata, che si è conquistata nel tempo una fama di “isola felice”, luogo di pastorale beatitudine e incorrotta, idilliaca esistenza. Eppure anche qui si allungherà l’ombra della falce della morte. E’ questo il senso dell’ammonimento Et in Arcadia ego, che darà il titolo ad una serie di quadri di valenza simbolica del Manierismo, da Guercino a Poussain. Costituisce il memento mori al quale nessuno potrà sottrarsi.
Personalmente ho avuto modo di “sentire” luoghi che si sono caricati, in questo caso negativamente, di forze energetiche di segno funesto. Mi è capitato in tre luoghi disparati di Roma che sono noti per le loro tristissime ambientazioni e vicende storiche, ove ho intimamente provato disagio per quei lamenti di dolore che si sono come cristallizzati, solidificati sulle pareti: nelle celle di via Tasso, dove venivano torturati i prigionieri delle SS; alle Fosse Ardeatine dove per rappresaglia furono fucilati 335 civili; per i viali del Manicomio di Monte Mario. Anche se oggi un dismesso ospedale per malattie mentali è stata trasformata in parco ed uffici comunali, il solo passeggiare per quei viali ombrosi procura malessere, perché gemiti, grida, sofferenze hanno indelebilmente “marcato” quel territorio.
arch. Renato Santoro – 23 gennaio 2015
NOTE
[1] D. Pikionis, Autobiografikà simiòmata (1958) / Note autobiografiche, traduzione M. Centanni in A. Ferlenga, Pikionis 1887-1968, Electa, Milano 1999, pp. 29-35
[2] Dove Alessandro Magno verrà accolto come figlio del Dio; ma, aggiunge Plutarco, fu solo l’equivoco nato dall’imperfetta conoscenza della lingua greca perché, anziché apostrofarlo affettuosamente “o paidion” (figlio), gli fu detto invece “o pai Diòs” (figlio di Zeus), cfr. Plut., V. parall., Aless., 27, 9),
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