PAPA’ CORBU: IL CORVO E L’OPERA AL NERO

La destabilizzante scrittura kafkiana non è che uno dei molteplici scossoni, dati –  su più fronti – dalla cultura europea del Novecento a quella ormai scricchiolante impalcatura di sillogismi, logiche e certezze filosofiche appartenenti ad un passato ancora troppo prossimo. L’estetica del perturbante, delle dissonanze, dell’improbabilità presentata come eventualità,  è concepibile ed accettabile solo ai nostri occhi di contemporanei dis-incantati.

Kafka, che è un cancerino sotto il dominio della luna,  scrive[1] di come gli sia fastidiosa la lettera K.  Pur tuttavia, altalenante e contraddittorio anche con se stesso, finisce con il prediligerla per l’onomastica dei suoi personaggi (dall’agrimensore K. del Castello, a Josef K. del Processo, al Karl di America), tanto da indurre George Steiner a decretare chenell’alfabeto del sentimento e della percezione umana tale lettera adesso appartiene indelebilmente a un solo uomo” [2].

Il cognome Kafka presenta ben due volte la famigerata K e forse l’avversione nasce dalla associazione fonetica con il boemo kavka che vuol dire “corvo”. Ed un corvo, infatti, era il simbolo araldico di famiglia, sventolante sull’insegna del negozio dell’ingombrante genitore; scelto anche per decorare la carta da lettere della ditta.

Forse la  dichiarata “ripugnanza” per l’innocente consonante  malcela  dissidi e dissapori consumati (o covati) tra le mura di casa[3]. Chissà quante volte il piccolo Franz, nello scrivere i suoi appunti su quella carta di bottega con il nero volatile incorniciato in un ramo fronzuto, avrà pensato – magari con una sorta di disappunto – al verso sgraziato e gracidante della cornacchia “avita”, con la quale (yddish gracile ed olivastro qual era) poteva temere di essere identificato.

Nell’opus magnum le quattro fasi della trasformazione alchemica degli elementi sono simboleggiate da quattro varietà di uccelli.  Il primo stadio, quello più basso della nigredo, cioè l’opera al nero, rappresenta la fase di macerazione e decomposizione dell’elemento, alla quale si associa iconograficamente proprio il corvo[4].

Questo preambolo sul significato esoterico del corvo coinvolge la figura di un architetto – forse il più conosciuto (a livello di grande pubblico) del secolo scorso – che di esoterismo fu di certo attento cultore e che, in qualche modo, magari per deliberata allusione, al corvo volle legarsi nominalmente: Le Corbusier.

Nato Charles-Edouard Janneret-Gris[5], subito dopo la prima guerra mondiale pescò il proprio pseudonimo tra impolverati cognomi di famiglia ormai in disuso[6]. Gli amici lo chiamavano familiarmente “Corbu”[7], così maliziosamente prossimo al francese corbeau  che vuol dire, appunto,  corvo.

Gli anni svizzeri, ma in particolare gli anni dell’apprendistato come disegnatore di cesello ed incisione presso Charles L’Eplattenier, sono importanti per la sua formazione. Il suo maestro (che in realtà ha soltanto tredici anni più di lui), lo indirizza non solo esteticamente ma gli offre anche spunti di meditazione e di spiritualità. E’ L’Eplattenier che gli fa dono del libro di Schuré, I grandi iniziati, in quegli anni un vero e proprio vademecum per simbolisti e teosofi e che il ventunenne Charles-Edouard leggerà a Parigi nel 1908. Ed è sempre L’Eplattenier ad incuriosirlo, misticamente, con la certosa di Ema (presso Firenze) –  che gli viene consigliata come tappa privilegiata per il suo primo viaggio in Italia nel 1907 – da cui trarrà ispirazione (è l’architetto stesso a rievocarlo), quando dovrà progettare il convento della Tourette, mezzo secolo dopo.

Di quel periodo svizzero Le Corbusier ricorda:

“La domenica, noi eravamo spesso riuniti sulla sommità della montagna più alta. Tra picchi e grandi rampe dolci; pascoli, armenti, orizzonti infiniti, volo di corvi. Noi preparavamo l’avvenire”[8].

E’ accidentale l’allusione a quel volo di uccelli? Quel gruppetto di apprendisti e di giovane maestro fa quasi pensare  ad una congrega di affiliati, casta di augures impegnati a decifrare i segni del cielo; traduttori dell’oscuro linguaggio degli uccelli, depositari della gaia scienza.

MODULOR

SOPRA: Le Corbusier, Le modulor, acquarello (1955)

MODULAZIONE DELLA FORMA

La forma infatti è la traccia dell’informe, poiché è questo che genera la forma, non la forma che genera l’informe, e genera quando gli si accosta la materia…(Plotino, Enneadi, VI, 7, 30 e seguenti).

La citazione di un filosofo neoplatonico tanto caro a simbolisti e teosofi come Plotino, sembra adattarsi alla perfezione alle istanze di Le Corbusier, da sempre interessato a studi nel campo della  numerologia e delle proporzioni auree, che porteranno agli scritti sul Modulor degli Anni Cinquanta[9]. Chi ha potuto parlare di “poesia dell’angolo retto”[10], non può non avere attraversato il percorso – tutto di testa – dell’esoterismo alchemico.

La musica è tempo e spazio come l’architettura. La musica e l’architettura dipendono dalla misura” scrive Le Corbusier[11] riverberando un’intuizione che lo imparenta al pensiero pitagorico.

L’architetto è tenuto a rispettare sintassi e regole della composizione, giustapponendo e dosando i rapporti di volumi e linee; né più né meno di quanto sia dato al musicista o allo scrittore i quali sono obbligati a servirsi di note, chiavi di violino e metronomi; di grammatica e vocabolario. Non è più tempo di estro umorale, fine a se stesso. L’architetto è soggetto alla legge dell’euritmia e del numero, entro le cui maglie inscrivere il proprio disegno. Egli è sì individuo, ma “gettato” in una struttura che gli preesiste e nei cui schemi deve scoprire i giusti incastri. Si tratta di “libertà vigilata”, di autodisciplina. Abdica alla propria irrequietezza creativa ma non alla creatività, come un puledro che dovrà sopportare briglie e sella ma che, comunque, ha facoltà di scegliere da sé il proprio percorso.

A commento della sua cappella di Notre-Dame-du-Haut, lo stesso Le Corbusier ebbe a scrivere:

L’arte astratta che, com’è giusto, alimenta tanto fervore ai nostri giorni, è la ragion d’essere di Ronchamp : linguaggio d’architettura – equazioni plastiche, sinfonia, musica o numeri (ma esenti da metafisica), rivelatore rigoroso dello spazio ineffabile.[12]

Il Modulor di Le Corbusier  vanta illustri ascendenti.

Già nell’Antico Testamento[13], il Tempio di Salomone è misurato in 20 cubiti di larghezza, 60 di lunghezza e 30 di altezza. I suoi elementi tridimensionali sono proporzionati fra loro da una successione di rapporti armonici (1 – 1,5 – 2 – 3) ; mentre le dimensioni sono espresse nell’unità di misura (il cubito, desunto dal mondo egizio) corrispondente alla lunghezza del “gomito”. Nel mondo antico (e questo è il recupero attuato da Le Corbusier) la metrologia è estensione del corpo umano – il digito, il palmo, il braccio, il piede – a significare che l’uomo è  misura di tutte le cose. Con l’avvento, rivoluzionario, del sistema metrico decimale promosso dagli Illuministi e dagli Enciclopedisti francesi di fine Settecento, il concetto viene ribaltato. L’unità dimensionale viene “oggettivata”,  cercata al di fuori dell’uomo; diviene espressione del mondo fisico a noi esterno, imparziale ed astratta frazione del meridiano terrestre[14].

Allorché i Greci fecero propria la scienza numerica e cabalistica che proveniva da Oriente, si impose una nuova e più elaborata dottrina di proporzionamento degli elementi, quella espressa dalla Sezione Aurea[15], il cui significato intrinseco è che il tutto è correlato ad una parte di esso, così come detta parte è correlata a quanto ne residua.

Sviluppando l’equazione di secondo grado che deriva dal rapporto algebrico della Sezione Aurea si ottengono relazioni armoniche fra le parti espresse dai coefficienti 0,618 e 1,618 (prima e seconda incognita), adoperati come moduli architettonici del mondo classico e della Rinascenza italiana.

Le Corbusier, come un novello Luca Pacioli, non fa che ripristinare, attualizzare ed adattare alla serialità della produzione di massa, (cioè: non fa che divulgare) quello che un tempo era secretum da maestri costruttori.

LINKS:

https://renatosantoro2015.wordpress.com/2015/03/02/la-materia-da-le-corbusier-al-brut-alis-m-brutus-alison-smithson/

https://renatosantoro2015.wordpress.com/2016/02/27/quei-sorprendenti-cucu-della-svizzera-parte-ii-scultori-e-architetti/

ARCH. RENATO SANTORO, ROMA 2015

NOTE

[1] Nato a Praga il 3 luglio 1883, nel suo diario, il 27 maggio 1914  annota: “Le K mi sembrano brutte, quasi mi ripugnano, ma le scrivo. Devono essere molto significative per me”.Cfr. F. Kafka, Diari, ediz. Mondadori, Milano 2003, p. 429

[2] G. Steiner, Linguaggio e silenzio, ediz. Garzanti, Milano 2001, p. 135

[3] E’ abbastanza nota la conflittualità del rapporto tra Kafka ed il padre Hermann. Si veda F. Kafka, Lettera al padre, ediz. SE, Milano 1987

[4] Alle fasi successive (albedo, citrinitas e rubedo)  sono, rispettivamente, abbinati: il cigno, il pavone, la fenice. Cfr. A. Roob, Alchemy & Mysticism, ediz. Taschen, Colonia 2001, p. 356

[5] L’architetto nasce in Svizzera a Le Chaux-de-Fonds, città del Giura, il 6 ottobre 1887, da Georges-Edouard e Marie-Charlotte-Amélie Perret. Ma  ha sempre sottolineato, con una sorta di compiacimento, antiche origini francesi della propria famiglia

[6] Durante gli anni parigini del sodalizio con il pittore Amédée Ozenfant, nel 1919 Charles-Edouard adotta lo pseudonimo con cui diventerà popolarissimo. Per firmare  i suoi articoli sulla rivista “L’Esprit Nouveau”, Ozenfant aveva scelto il cognome della madre (Saugnier). Altrettanto voleva fare l’architetto per i suoi scritti, ma – poiché il cognome della madre di Charles-Edouard poteva creare equivoci con il già illustre Auguste Perret, da cui era stato apprendista – scelse Le Corbusier, attingendo all’onomastica di un suo qualche avo (cfr. F. Tentori, Vita e opere di Le Corbusier, ediz. Laterza, Roma-Bari 1999, p. V)

[7] Lui stesso, ormai vecchio, si fa chiamare “Papà Corbu” da amici e collaboratori, come scrive raccontando un aneddoto del 1965. Quasi rimpiangesse di non avere avuto figli e avesse desiderio di sentirsi chiamare tanto affettuosamente. Cfr. Le Corbusier, Oeuvre Complète vol. VIII, Les dernières Oeuvres, Editions d’Architecture Artemis, Zurigo 1973, p. 172

[8] Le Corbusier, L’Art decoratif d’aujourd’hui (1925),  riportato in F. Tentori, op. cit. pp. 20-21

[9] Cfr. Le Corbusier, Le Modulor, Editions de l’Architecture d’Aujourd’hui, Boulogne 1950. Si veda anche: Le Corbusier, Le Modulor 2 (La parole est aux usagers),stesso editore, Boulogne 1955

[10] Cfr. Le Corbusier, Le poème de l’angle droit, Parigi 1955

[11] Le Corbusier, Le Modulor,  op. cit., p. 29

[12] Le Corbusier, Ronchamp, ediz. di Comunità, Milano 1957

[13] Libro I dei Re, 6, 2. Cfr. La sacra Bibbia, ediz. Paoline, Roma 1966, p. 336

[14] La nostra unità di misura equivale, approssimativamente, alla quarantamilionesima parte di un meridiano

[15]  Si tratta dell’uguaglianza  1: x = x : (1 – x)  da cui si calcola l’equazione di secondo grado  x² + x – 1 = 0

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