Il tempo, nel suo essere inesorabilmente tempo presente, fa sì che Tempo – in quanto pres-ente cioè essente presso – ed Esserci coincidano. L’orizzonte di questa esistenza è il mondo reale , cioè il mondo delle res (delle cose) : questo nostro aldiquà in cui trova ambientazione la nostra vita. Il teatro e, dal secolo scorso, il cinema possono costituire una valida metafora di questa messa in scena che è il mondo.
La scenografia in un film, non solo nelle pellicole a carattere storico, ma anche in quelle di tono minimalista, è una componente fondamentale per assicurare credibilità e giusta collocazione al racconto che si dipana. E si può passare dal dettaglio di ambiente in un interno quotidiano, anche dimesso (quello che, con termine inglese, oggi si usa chiamare location), alla ricostruzione architettonica di interi scorci di foro romano come nei kolossal degli anni Sessanta.
Ma ci sono film in cui l’apparato scenografico non è soltanto parte caratterizzante, sia pure di fondale, della storia. Accade talora che la scenografia stessa divenga un tutt’uno integrante ed inscindibile con l’azione ivi rappresentata. Tanto che allestimento scenico e scena dell’allestimento finiscono con l’identificarsi.
Si pensi, a titolo esemplificativo, a Quarto potere di O. Welles[1], in cui Xanadu (la barocca, allucinata e soffocante reggia del magnate Kane, in cui egli affastella sino all’inverosimile, oggetti d’arte, arredi, mobili, statue, animali esotici, chincaglierie e quant’altro sia riuscito a collezionare durante tutti i suoi viaggi per il mondo), si presta a divenire perfetto emblema del protagonista stesso, delle sue smodate manie e della sua personalità.
La scena diviene trasposizione psicologica di un carattere e di una intera vita. Il mistero dell’esistenza è racchiuso in quel cartello issato sulla recinzione del tetro castello di Xanadu: “no trespassing”: non oltrepassare. Quasi monito (o piuttosto divieto) al viandante, al pellegrino che per azzardo provi ad avventurarsi su sentieri che conducano all’inquietudine di interrogativi ultraterreni, destinati a rimanere senza risposta. Così come privo di soluzione all’enigma rimane il personaggio conduttore del film, il giornalista che indaga sul mistero di Rosebud[2]; il quale non saprà mai a chi o a che cosa appartenesse quel nome e perché avesse tanto contato nella vita di Charles Foster Kane[3].
Rear Window
Già nel titolo originale, Rear Window cioè “la finestra sul retro”, Alfred Hitchcock esplicita la curiosità dell’io narrante (e del suo occhio indagatore) rivolta piuttosto a ciò che sta oltre il prospetto principale di facciata e che getta uno sguardo sul retroscena del visibile[4].
In questo senso la traduzione in italiano (La finestra sul cortile) o quella in francese (Fenêtre sur cour) del film americano datato 1954, pur essendone la corretta versione lessicale, non possiede la stessa incisiva immediatezza metaforica.
Il regista britannico[5], avendo esordito come disegnatore e scenografo[6], è stato sempre particolarmente sensibile all’importanza della scena nel contesto di un racconto filmico per immagini, ben consapevole di quanto un decor giusto e puntuale possa influire nell’andamento di una inquadratura o di una sequenza.
Sono stati già abbondantemente messi in evidenza i riferimenti formali ed estetici, i collegamenti pittorici con quadri ed artisti del Novecento che Alfred Hitchcock ebbe sicuramente presenti, mai occasionali o accidentali ma esito di una accurata scelta stilistica. Il primo nome che viene alla mente è certamente l’americano Edward Hopper, le cui tele a volte sono state quasi ricostruite di sana pianta in studio dagli scenografi alle direttive del regista[7]. Ma non si può non citare l’incarico a Salvador Dalì di disegnare i bozzetti utilizzati per le ossessioni oniriche di Gregory Peck in Io ti salverò [8], in pieno furor creativo surrealista.
In La finestra sul cortile[9] tutta la trama si svolge in un unico teatro di posa: un cortile al Greenwich Village, visto attraverso l’enorme finestra di una stanza in cui il protagonista Jeff è immobilizzato nel gesso, su una sedia a rotelle. Su quel cortile affacciano gli appartamenti dirimpettai e, poiché è una rovente estate nuovayorkese, dalle finestre tenute spalancate si possono spiare, ad una ad una, le singole quotidianità di quel variegato mondo, come se si trattasse di cassetti aperti di uno stipo, scomparti di un classificatore di lepidotteri, vetrine di una merceria. La professione di Jeff è quella di reporter, per cui armato degli strumenti del mestiere (macchina fotografica, teleobiettivo e binocolo), riesce a violare, quasi con piacere morbosamente voyeristico, l’intimità di ciascuno dei suoi vicini: la ballerina che di giorno prova passi di danza e la sera riceve amici; il pianista compositore che insegue sulla tastiera il suo leitmotiv; la coppia di neo-sposi infaticabile tra le lenzuola; l’attempata miss Lonelyheart che affoga nel bicchiere le delusioni amorose. Fino a che Jeff (interpretato da James Stewart) si ritrova involontario testimone di un uxoricidio, spunto questo per lo svolgimento dinamico del film stesso.
Il caseggiato è una tipica costruzione intensiva americana in mattoni rossi, a “faccia-a-vista” . Le inquadrature del film ce lo mostrano in tutta la gamma delle diverse condizioni atmosferiche ed ambientali, con il sole, sotto la pioggia, di giorno, in un infuocato tramonto, al buio della notte.
Le finestre sono immancabilmente aperte come scatole scoperchiate. E questo è un espediente cui da sempre la tecnica pittorica ha fatto ricorso per mettere in scena il teatrino delle misere vicende dell’umana commedia. Nella selezione di quadri che viene di seguito proposta, è visibile come un po’ ovunque e nel corso dei decenni, artisti i più disparati fra loro (dal veneziano Leonardo Dudreville, all’americano Hopper negli anni Venti; dal belga Magritte al greco Tsarouchis negli anni Cinquanta e Sessanta abbiano attinto allo spunto della finestra come diaframma trasparente che lascia scrutare oltre il visibile e permette allo sguardo di puntare al di là del rappresentabile.
La scenografia del film è dello statunitense Hal Pereira (1905-1983) [10] coadiuvato qui da un nutrito staff, composto da J. Mac Millan Johnson, S. Comer e R. Mayer, il tutto sotto la vigile supervisione del “maestro del brivido”[11].
Sarà interessante osservare come negli elaborati grafici sia schizzato il progetto dello scenografo al servizio della macchina da presa e, dunque, del regista che quasi diviene il deus ex machina, organizzatore e manovratore dell’azione scenica.
Così come sono interessanti e funzionali al nostro discorso, le foto di scena in cui Alfred Hitchcock si pone e si muove davvero come l’officiante di questo culto laico, di questa liturgia che è l’arte cinematografica: capace di creare miti e leggende, divi e divine, icone indelebili nel sacrario di una memoria collettiva che si nutre di sogni, illusioni, immagini ed immaginazione.
Si è trattato quasi come puntare un cannocchiale – o piuttosto un telescopio – verso l’Assoluto, per scrutare passi e movimenti di remoti abitatori dell’Olimpo, impegnati in un interminabile giro di danza con l’eternità.
arch. Renato Santoro, Roma 2014
NOTE
[1] Con il titolo originale Citizen Kane, è la prima opera cinematografica di cui un prodigioso Orson Welles ventiseienne, oltre ad esserne interprete, firma la regia. Produzione RKO (USA, 1941), è considerato il capolavoro di Welles (1915 – 1985) ed è sicuramente uno dei film più acclamati nella storia del cinema mondiale
[2] Nella versione italiana del dopoguerra, Rosebud (letteralmente: bocciolo di rosa) è stato tradotto con “Rosabella”. Mentre, particolare ancor più curioso, Xanadu, il nome del castello – evocatore del luogo mitico e remoto che fà da sfondo al Kubla Kan di Coleridge – dai doppiatori italiani fu reso (forse per assonanza con il nome del protagonista Kane) con Kandalù
[3] Sarà soltanto lo spettatore, ma proprio all’ultimo fotogramma, a ricevere un accenno di verità, appena un frammento, un’immagine, subito cancellata dal fuoco e con la scritta the end incombente
[4] Cfr. il saggio “Il teatro di posa della mente” in R. Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, Milano 2005 (p. 51 e seguenti)
[5] Alfred Hitchcock, nato a Londra il 13 agosto 1899, è morto nel 1980
[6] Lo sceneggiatore italiano Furio Scarpelli, nel descrivere la puntigliosità del regista, sottolinea come la formazione di Hitchcock sia avvenuta in Germania “intorno agli anni Venti nell’U.F.A. di Erich Pommer, dove ha lavorato come architetto, sceneggiatore e aiuto-regista” (cfr. La storia del cinema, ediz. Vallardi, Milano 1966, p. 184)
[7] In Psycho (1960) la casa-albergo di Norman Bates è la fedele trasposizione di un quadro di Hopper del 1925, House by the Railroad
[8] Titolo originale: Spellbound (1945)
[9] La finestra sul cortile (titolo originale: Rear window), produzione Patron Inc. (USA 1954). Da un racconto di Cornel Woolrich. Sceneggiatura di John Michael Hayes. Fotografia di Robert Burks. Musica di Franz Waxman. Scenografia di Hal Pereira + altri. Interpreti principali: James Stewart, Grace Kelly, Raymond Burr, Thelma Ritter
[10] Quando fu chiamato da Hitchcock, Hal Pereira era già attivissimo nell’ambiente hollywoodiano. Ha lavorato intensamente negli anni Cinquanta in film come La pista degli elefanti, Vacanze romane, Sabrina, La rosa tatuata etc. sino alla serie televisiva Bonanaza, all’epoca un grandissimo successo. L’attività prosegue negli anni Sessanta con titoli come Colazione da Tiffany, La mia geisha, A piedi nudi nel parco etc.
[11] Con questo epiteto era universalmente conosciuto il regista Alfred Hitchcock., familiarmente “Hitch”
BIBLIOGRAFIA
AA. VV., La storia del cinema, vol. III – IV ediz. Vallardi, Milano 1966
O. Welles, P. Bogdanovich, Io, Orson Welles, edizione Baldini Castoldi Dalai, Milano 1996
A. Hitchcock, Hitchcock secondo Hitchcock. Idee e confessioni del maestro del cinema, ed. Baldini e Castoldi, Milano 2002
F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, ed. Il Saggiatore – Net, Milano 2002
O. Welles, It’s all true. Interviste sull’arte del cinema, edizioni Minimum Fax, Roma 2005
R. Calasso, Il teatro di posa della mente in La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi, Milano 2005
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